cercando a tentoni dei risultati consistenti, spalanco la mia apertura mentale, lavoro le mie percezioni per spingerle a funzionare. Si. Si. Ritornate a vivere! Risuscita, spia miserabile! Dammi quel che mi spetta! I miei poteri stanno agitandosi in me. L’oscurita interiore sta un po’ dissipandosi; frammenti erranti di pensieri isolati ma coerenti trovano il modo di entrare in me. 'Nevrotico ma non ancora completamente psicotico. Andare a trovare il capo del dipartimento per dirgli di dargli una spinta. I biglietti per l’opera, pero devo andarci. Andare a donne e divertente, andare a donne e molto importante, ma ci sono cose piu divertenti e piu importanti. Come starsene su un trampolino molto alto prima di spiccare il tuffo.' Questo dissonante caotico cicaleccio non mi dice niente, se non che il potere non e ancora morto, e questo mi conforta molto. Mi raffiguro il potere come una specie di verme attorcigliato attorno al cervello, un povero verme stanco, raggrinzito e tutto accartocciato, la sua pelle una volta bella hicida adesso piena di ulcere con chiazze logore e squamose. Questa e un’immagine relativamente recente, pero anche nei tempi piu felici ho sempre pensato al potere come qualcosa di staccato da me, un intruso. Un inquilino. Lui e io, io e lui. Ero solito discutere di cose del genere con Nyquist. (Lui e gia entrato a far parte di questi sfoghi? Forse no. Si tratta di una persona che ho conosciuto una volta, un certo Tom Nyquist, uno dei miei amici di una volta. Che si portava nel cranio un intruso simile a questo mio). A Nyquist non piaceva il mio punto di vista. — E da schizoide, impostare una dualita simile. Il tuo potere sei tu stesso. Tu sei il tuo potere. Perche cerchi di estraniarti dal tuo stesso cervello? — E probabile che Nyquist avesse ragione, ma e troppo tardi. La dualita, lui e io, sara cosi finche non ci separera la morte.
Ecco il mio cliente, il massiccio mediano, Paul F. Bruno. Ha la faccia tutta gonfia e rossa, e non sorride per niente, come se le bravate di sabato gli fossero costate qualche dente. Io sfilo la fascia elastica ed estraggo
— E buono?
— Non ti dispiacera.
— Ti credo sulla parola. — Mi fa una smorfia dolorosa, a bocca chiusa. Tirando fuori il suo portafoglio ben gonfio, mi mette in mano alcuni biglietti di banca. Io mi intrufolo svelto nella sua mente se non altro perche, maledizione, adesso questo mio potere e di nuovo in funzione, una rapida scorsa psichica, e capto i livelli piu superficiali: i denti persi durante la partita di pallone, un delizioso lavoretto consolatorio in una casa d’appuntamenti sabato notte, progetti piuttosto vaghi da mandare in porto prima della partita di sabato prossimo, eccetera. Per quel che riguarda la trattativa in atto scorgo senso di colpa, imbarazzo, anche un po’ di risentimento nei miei riguardi, per averlo aiutato. Ma bene: la gratitudine del
Bruno si e fermato accanto alla meridiana, dove uno studente negro alto due metri lo ha intercettato; un giocatore di pallacanestro, ovvio. Il negro indossa una giacchetta azzurra da universitario, scarpette di tela verde, calzoni sportivi gialli aderenti a tubo. Le sue gambe da sole devono essere alte un metro e mezzo. Lui e Bruno parlottano per un momento. Bruno fa segno nella mia direzione. Il negro annuisce. Sto per acquistare un nuovo cliente, probabilmente. Bruno scompare e il negro trotta e saltella lungo il viale, e sale i gradini. E proprio nero, quasi violaceo di pelle, tuttavia la sua fisionomia ha un’acutezza caucasica, zigomi fieri, un naso aquilino altero, labbra sottili, gelide. E straordinariamente ben fatto, una specie di statua che cammina, una specie di idolo. Forse i suoi geni non sono completamente negroidi: un etiope, magari, di una qualche tribu dei giuncheti del Nilo? Porta la sua nerissima massa di capelli ricciuti in un’enorme aggressiva aureola all’africana larga 30 centimetri o anche piu, meticolosamente ordinata. Non sarei rimasto sorpreso di vedere guance rigate da cicatrici, o un osso ficcato nelle narici. Come si avvicina, la mia mente, aperta solo di uno spiraglio, coglie le emanazioni periferiche generalizzate della sua personalita. Tutto scontato, anzi stereotipo: mi aspettavo che fosse permaloso, vanitoso, sulla difensiva, ostile, e quello che arriva a me e un miscuglio di feroce orgoglio di razza, uno sconvolgente autocompiacimento fisico, un’esplosiva sfiducia nei riguardi degli altri, soprattutto bianchi. Benissimo. Schemi arcinoti.
La sua lunga ombra piomba su di me, improvvisa, quando, per un attimo, il sole squarcia le nubi. Lui ondeggia instabile sulle punte. — Sei tu Selig? — chiede. Con la testa faccio segno di si. — Yahya Lumumba — dice lui.
— Prego?
—
— E esatto.
— Hai avuto una buona raccomandazione dal mio amico Bruno, la. Quanto prendi?
— Tre dollari e mezzo la cartella. Dattiloscritta, spaziatura due.
Lui ci riflette sopra. Mette in mostra un mucchio di denti e dice: — Che razza di schifezza rabberciata e questa?
— E cosi che mi guadagno da vivere, signor Lumumba.
Mi odio per quell’aggiunta, quel vigliaccio signor. — Fanno circa 20 dollari per un tema di lunghezza standard. Un lavoro decente prende un mucchio di tempo, no?
— Si, si. — Una studiata spallucciata. — Okay. Non sono qui per criticarti, vecchio mio. Ho bisogno del tuo lavoro. Sai qualcosa di Europide?
— Euripide?
— E io com’ho detto? — Mi sta stuzzicando, con quei suoi dialettismi esagerati da negro, facendo passare me per fesso con quel suo
— So chi intendete. Ma che genere di ricerca, signor Lumumba?
Lui tira fuori un pezzettino di un foglio di agenda da un taschino sul petto e lo esamina facendo un mucchio di scena. — Il prof vuole che noi paragoniamo il tema di
— Eschilo?
— Si, lui. Da cinque a dieci pagine. Per il dieci di novembre. Ci stai dentro?
— Penso di si — dico, mentre cerco la mia penna. — Non dovrebbero esserci difficolta — soprattutto dal momento che la ricerca e gia bell’e pronta tra le mie carte, annata 1952, esattamente su questo venerando tema di lettere. — Ho soltanto bisogno di alcune informazioni su di voi per l’intestazione. La grafia precisa del nome, il nome del vostro professore, il numero del corso… — Lui comincia a elencarmele. Mentre prendo nota, dilato lo spiraglio della mia mente per l’abituale sondaggio dell’intimo del cliente, per farmi un’idea dello stile da usare nella ricerca. Saro capace di falsificare il tipo di saggio che Yahya Lumumba potrebbe verosimilmente produrre? Sara una sfida che mi mettera a dura prova, scrivere in gergo negro stretto portando avanti il tutto in maniera fredda, distaccata e arrogante, ogni parola una presa in giro della faccia grassa del professore bianco. Credo proprio di non farcela: ma Lumumba vuole questo da me? Non pensera che io prenda in giro