— Ti ho interrotto in qualcosa? — Tipica apertura di Judith.

— Una tranquilla serata in casa. Sto stendendo, per conto terzi, una relazione finale sull’Odissea. Ti e venuta qualche brillante idea per me, Jude?

— Sono due settimane che non telefoni.

— Ero al verde. Dopo quella scenata dell’ultima volta, non avevo proprio voglia di tirar fuori l’argomento soldi, e recentemente e diventato l’unico argomento di cui riesco a parlare; percio non ho telefonato.

— Merda! — dice lei — io non ero arrabbiata con te.

— Urlavi come una pazza furiosa.

— Non le pensavo davvero, quelle cose. Come puoi credere che parlassi sul serio? Perche urlavo? Pensi sul serio che io ti consideri un… un… come ti ho chiamato?

— Un incapace parassita, mi sembra.

— Un incapace parassita. Merda. Ero tesa, quella sera, Duv; ho anch’io i miei problemi, e le mestruazioni erano in ritardo. Ho perso il controllo. Ho urlato la prima cazzata che mi e saltata in mente; ma perche ci hai creduto? Da quando hai cominciato a prendere sul serio quello che la gente ti dice con la bocca?

— Jude… lo stavi dicendo anche con la testa.

— Cosa? — La sua voce diventa di colpo debole e pentita.

— Sei sicuro?

— Era chiarissimo.

— Oh, Gesu, Duv, abbi un po’ di cuore! In quel momento avrei potuto pensare qualunque cosa. Pero al di sotto della rabbia… al di sotto, Duv… tu devi aver visto che io non intendevo quello. Che io ti amo, che non voglio liberarmi di te. Tu sei tutto quello che ho, Duv, tu e il piccolino.

Il suo amore ha un sapere sgradevole, e i suoi sentimentalismi sono anche peggio, per i miei gusti. Dico: — Non leggo piu quello che sta sotto, Jude. In questi giorni non capto granche. Comunque, ascolta, non vale la pena che ci scaldiamo per questo. Io sono un incapace parassita, e mi sono fatto prestare da te molto piu di quanto tu potevi permetterti. Quella pecora nera del tuo fratellone si sente abbastanza colpevole. Mi venga un accidente se vengo piu a chiederti dei soldi.

— Colpevole? Tu parli di colpa, quando io…

— No — la metto in guardia — adesso non metterti a giocare coi sensi di colpa, Jude. Non adesso. — Il suo rimorso per la passata freddezza nei miei riguardi puzza ancor piu del suo ritrovato amore. — Non me la sento, stasera, di determinare la proporzione tra colpe e sensi di colpa.

— Benissimo. Benissimo. Ma ne hai di soldi?

— Te l’ho detto, scrivo tesine. Mi pagano per questo.

— Ti andrebbe venire qui, per cena, domani sera?

— Penso che farei meglio a lavorare. Ho un mucchio di roba da scrivere, Jude. E la stagione di punta.

— Ci saremo soltanto noi due. E il piccolo, naturalmente, ma lo mettero a letto presto. Soltanto tu e io. Potremmo parlare. Abbiamo tante cose da dirci. Perche non vieni, Duv? Non hai bisogno di lavorare in continuazione, giorno e notte. Ti cucinero qualcosa che ti piace. Ti faro spaghetti in salsa piccante. Quello che vuoi. Basta che tu mi dica di si. — Sta implorandomi, questa sorella di ghiaccio che per venticinque anni non mi ha dato nient’altro che astio. Vieni e saro una mamma per te, Duv. Vieni e permetti che mi mostri affettuosa, fratello.

— Forse dopodomani. Ti telefonero io.

— Nessuna possibilita per domani?

— Non credo — dico io. Silenzio. Non vuole supplicarmi. Nel silenzio improvviso, che urla, io dico: — Che cosa ti e successo, Judith? Hai visto qualcuno che ti interessa?

— Non ho visto proprio nessuno. — Una punta di durezza nella sua voce. E divorziata da due anni e mezzo; spesso passa la notte in giro; sta inacidendo, nell’anima. Ha 31 anni. — Sono sempre in mezzo agli uomini, adesso. Ma, tutto sommato, ne sono lontana. Non me n’importa piu niente di qualche chiavata occasionale.

Io soffoco una risatina. — Che cos’e successo di quell’agente di commercio che avevi conosciuto? Mickey?

— Marty. Non ha mai contato niente. Mi ha fatto girare tutta l’Europa al 10 per cento del prezzo. Altrimenti non avrei potuto permettermi di andarci. Me ne sono servita.

— Ah, e cosi?

— Mi sentivo una merda, per questo. Il mese scorso ho litigato. Non lo amavo. Penso che nemmeno mi piacesse.

— Pero, prima, gli sei girata intorno abbastanza da fare un giro in Europa.

— A lui non e costato niente, Duv. Ero io che dovevo andare a letto con lui; lui doveva solo riempire moduli. Che cosa vuoi dire? Che sono una puttana?

— Jude…

— Okay, sono una puttana. Ma adesso sto tentando di rigar dritto per un po’. Montagne di succo d’arancia gelato e un mare di libri impegnati. Sto leggendo Proust, sai? Ho appena finito La strada di Swann, e domani…

— Ho ancora del lavoro da fare per questa sera, Jude.

— Mi spiace. Non volevo disturbarti. Verrai a cena questa settimana?

— Ci pensero. Te lo faro sapere.

— Perche mi odi tanto, Duv?

— Io non ti odio. Ma tra un po’ fondiamo il telefono.

— Non scordarti di telefonare — dice lei. Parla al vento.

8

Toni. Adesso dovrei parlarvi di Toni.

Ho vissuto con Toni per sette settimane, un’estate di otto anni fa. Non ho mai vissuto con qualcun altro cosi a lungo: fatta eccezione per i miei genitori e per mia sorella, che ho abbandonato appena ho potuto; e fatta eccezione di me stesso, di cui non posso sbarazzarmi affatto. Toni e stata uno dei due grandi amori della mia vita: l’altro e stato Kitty. Di Kitty vi parlero un’altra volta.

Posso ricostruire Toni? Proviamo con pochi rapidi tratti. Aveva 24 anni. Una ragazza brillante, alta circa un metro e 80. Esile. Svelta e goffa insieme. Lunghe gambe, lunghe braccia, polsi sottili, caviglie sottili. Lucidi capelli neri, drittissimi, che scendevano come una cascata sulle sue spalle. Occhi scuri appassionati, intelligenti, sempre attenti e canzonatori. Una ragazza vivace, accorta, non proprio colta ma straordinariamente saggia. Il volto tutt’altro che convenzionalmente 'grazioso' — troppa bocca, troppo naso, zigomi troppo alti — eppure capace di produrre un effetto sexy e di enorme attrazione, quel che basta per far voltare un mucchio di teste quando entra in una stanza. Ha petto pieno, sodo. Mi attirano le donne dai bei seni: ho sempre bisogno di un posto morbido per riposarci la mia testa stanca. Tutte le volte che mi sento stanco. Mia madre portava la prima misura: non era certo un comodo cuscino. Non avrebbe potuto allattarmi neanche se lo avesse voluto, e non lo fece. (Riusciro mai a perdonarle di avermi lasciato uscir fuori dal suo ventre? Ah, andiamo, Selig, dimostra un po’ di pieta filiale, per l’amor di Dio!).

Non ho mai guardato nella mente di Toni, salvo un paio di volte, una il giorno in cui l’ho incontrata e l’altra un paio di settimane dopo; poi una terza volta il giorno in cui rompemmo. La terza volta fu un puro caso, disastroso. Anche la seconda fu piu o meno un caso, ma non del tutto. Soltanto il primo fu un sondaggio voluto. Dopo che fui sicuro di amarla, decisi di non spiare mai piu nella sua testa. Chi spia dal buco della serratura, puo vedere cose che gli faranno male. Una lezione che ho imparato quand’ero molto piccolo. Inoltre non volevo che Toni sospettasse qualcosa del mio potere. La mia maledizione. Avevo paura che potesse spaventarla, allontanandola da me.

Quell’estate, a 85 dollari la settimana, ultimo nell’infinita serie dei miei strani lavori, facevo alcune ricerche per conto di un notissimo scrittore professionista che stava preparando un libro immenso sulle macchinazioni politiche legate alla fondazione dello stato di Israele. Per otto ore al giorno scartabellavo per lui le raccolte di antichi quotidiani nelle viscere della biblioteca alla Columbia. Toni era uno dei giovani curatori della casa editrice che avrebbe pubblicato il libro. La incontrai un pomeriggio di primavera nel lussuoso appartamento dello scrittore,

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