dell’anno sarebbe stato rovinato da un’improvvisa, immensa nevicata, da marosi altissimi o da tornadi, nonostante le previsioni atmosferiche fossero ottime. Ma il giorno fu limpido e dolce come la settimana che l’aveva preceduto. A mezzogiorno apprendemmo che era il 31 dicembre piu caldo di cui si avesse memoria a New York, e il termometro continuo a salire per tutto il pomeriggio, tanto che scivolammo da uno pseudoaprile a una sconcertante imitazione di giugno.

In tutto questo tempo me n’ero rimasto da solo, ammantato di tenebrose divagazioni deliranti e, immagino, di autocompatimento. Non telefonai a nessuno, ne a Lombroso, ne a Sundara, ne a Mardikian, ne a Carvajal, ne ad altri brandelli della mia vita precedente. Uscivo per poche ore ogni giorno e vagavo per le strade — chi poteva resistere a quel sole? — ma non parlavo con nessuno e non incoraggiavo nessuno ad attaccare discorso, e a sera tornavo a casa, solo, a leggere un po’, a bere un goccio di brandy, a sentire della musica senza ascoltarla e finivo a letto presto. L’isolamento sembrava togliermi ogni potere stocastico: vivevo interamente nel presente, come un animale, senza un’idea di quello che sarebbe successo dopo, senza un’intuizione, ne il vecchio senso dei contesti che si uniscono e combaciano.

L’ultimo dell’anno sentii il bisogno di uscire. Barricarmi dietro la solitudine in una notte del genere mi era insopportabile, e poi era, tra l’altro, la vigilia del mio 34° compleanno. Pensai di telefonare a qualche amico, ma… no, la vita di societa non mi attirava piu: sarei scivolato via, solitario e sconosciuto, tra le vie traverse di Manhattan, come il Califfo Haroun al-Raschid in giro, non ufficiale, per Baghdad. Pero indossai gli abiti migliori e piu vistosi, una tunica estiva color porpora e oro a trame lucenti, mi sfoltii la barba e depilai il cranio e uscii baldanzoso a seppellire l’anno vecchio.

Nel tardo pomeriggio era gia notte — era ancora pieno inverno, anche se il termometro segnava diversamente — e le luci della citta risplendevano. Erano solo le sette, ma la festa era gia cominciata; sentivo cantare, risate lontane, cori salmodianti, il rumore distante di bicchieri spezzati.

Consumai un pasto frugale in un piccolo ristorante automatico nella Terza Avenue e vagai senza scopo verso sudovest, rendendomi conto, dopo circa un’ora, che stavo andando verso “Times” Square.

Di solito nessuno osava bighellonare cosi per Manhattan dopo il tramonto. Ma stasera le strade erano affollate come di giorno, c’erano pedoni ovunque, e ridevano, sbirciavano nelle vetrine dei negozi, gesticolavano verso gli estranei, si spingevano l’un l’altro scherzosamente; mi sentivo al sicuro.

Ma questa era davvero New York, la citta dei visi impassibili e degli occhi diffidenti, la citta dei coltelli che scintillavano nelle strade buie e squallide? Si, si, proprio New York, ma una New York diversa, una New York millenaria, New York nella notte culminante dei Saturnali.

Saturnali, ecco cos’era, un’orgia folle, una frenesia di spiriti estatici. Qualsiasi droga della farmacopea psichedelica veniva venduta agli angoli delle strade e le contrattazioni erano vivaci. Nessuno riusciva a camminare diritto. Ovunque ululavano le sirene, mentre l’allegria saliva verso l’acme.

Non presi nessun tipo di droga, a parte la droga antica, l’alcol, che ingurgitai in quantita enormi fermandomi a ogni bar, una birra qui, uno schifoso brandy la, un po’ di tequila, rum, un martini e persino dello sherry dolce.

A ogni ora che passava aumentava anche la sfrenatezza. Nei bar, alle nove, c’era qualche persona nuda; ma prima delle nove e mezzo ovunque si vedevano corpi nudi sudati, seni ondeggianti, natiche tremolanti, mani unite, gente che correva in girotondo. Alle nove e mezzo cominciai a vedere gente che si accoppiava nelle strade e alle dieci il sesso dilagava. Per tutta la sera c’era stata nell’aria un’elettricita violenta — finestre sfasciate, spari contro i lampioni — che era degenerata rapidamente dopo le dieci: pugilati furibondi, alcuni scherzosi, altri mortali e all’incrocio tra la 57a e la Quinta Strada si scateno una battaglia generale, un centinaio di uomini e donne che si picchiavano a caso, automobilisti che litigavano furiosamente, e mi sembro che alcuni guidatori lanciassero deliberatamente le proprie macchine contro le altre solo per il gusto di sfasciare. C’erano delitti? Sicuramente. Stupri? A migliaia. Mutilazioni e altre mostruosita? Senza dubbio.

Dov’era la polizia? Vidi degli agenti di tanto in tanto, alcuni che tentavano disperatamente di respingere la marea di disordine, altri che vi rinunciavano e si univano alla follia collettiva, poliziotti con i visi congestionati e gli occhi lucidi che si lanciavano nel mezzo della mischia e la facevano degenerare in una guerra selvaggia, poliziotti che compravano la droga agli angoli delle strade, poliziotti nudi fino alla cintola che abbrancavano le ragazze nude nei bar, poliziotti che sfasciavano i parabrezza delle macchine con i manganelli. La pazzia collettiva era contagiosa. Dopo una settimana di montature apocalittiche, di tensione grottesca, nessuno riusciva a mantenere il proprio equilibrio.

Mezzanotte mi trovo a “Times” Square. La vecchia usanza, da tanto tempo abbandonata in una citta in decadenza: migliaia, centinaia di migliaia di persone ammassate a gomito a gomito, tra la 46a e la 42a, a cantare, urlare, baciarsi, ondeggiare. Improvvisamente batte la mezzanotte. Fasci di luce abbaglianti crivellarono il cielo. Le sommita dei grattacieli industriali furono illuminate da riflettori multicolori. L’anno 2000! L’anno 2000! Era il mio compleanno! Felice compleanno! Felice, felice, felice!

Ero ubriaco. Ero fuori di me. L’isterismo universale mi si scatenava dentro. Le mie mani si afferrarono al seno di una donna sconosciuta e lo strizzarono, sentii una bocca che si schiacciava contro la mia e un corpo caldo e umido che premeva forte il mio. La folla aumentava e noi due fummo trascinati lontano: mi mescolai alla marea umana, abbracciando, ridendo, lottando per riprendere fiato, saltando, cadendo, inciampando, finendo quasi sotto migliaia di piedi.

— Al fuoco! — grido qualcuno e infatti vidi le fiamme danzare, alte, su un edificio a ovest lungo la 44a. Era di un colore cosi deliziosamente arancione che cominciammo tutti a lanciare urla di gioia e ad applaudire. Ci sentiamo tutti Nerone questa notte, pensai, e intanto fui trascinato avanti verso sud.

Non vedevo piu le fiamme, ma l’odore acre di fumo si stava spargendo in tutta la zona. Sentivo suonare le campane, altre sirene. Caos, caos, caos.

Poi provai una sensazione come se mi avessero tirato un pugno dietro la testa, e caddi intontito, in uno spazio non affollato, mi coprii la faccia con le mani per parare il prossimo colpo, ma non arrivo nessun colpo, solo un’ondata di visioni. Visioni. Un torrente sconcertante di immagini mi turbinava nella mente. Mi vidi vecchio e smunto, scosso dalla tosse in un letto d’ospedale, circondato dalla lucente grata di un macchinario medico simile a una ragnatela; mi vidi nuotare in un limpido laghetto di montagna; mi vidi sbattuto e sollevato dalle onde su una sconvolta spiaggia tropicale. Sbirciai nel misterioso interno di qualche immenso e incomprensibile meccanismo di cristallo. Ero sul bordo di un campo di lava e osservavo un mare di materia liquefatta gorgogliare e ribollire come se fosse il primo mattino del mondo. I colori mi aggredivano. Voci mi parlavano in bisbigli, coglievo frammenti, brandelli polverizzati di parole e chiusure di frasi. E un “viaggio” mi dicevo, un “viaggio” molto brutto, ma alla fine anche il “viaggio” peggiore ha termine e mi rannicchiai, tremante, cercando di non resistere, lasciando che quell’incubo mi attraversasse e si esaurisse; forse duro delle ore. In un momento di lucidita dissi a me stesso: “Questo e ’vedere’, e cosi che comincia, come una febbre, una pazzia”. Ricordo di essermelo detto.

Poi scoppio il tuono, l’ira di Giove, possente e incontestabile. Ci fu una perfetta immobilita dopo quel primo boato terrificante. In tutta la citta i Saturnali subirono un arresto, mentre i newyorkesi si fermavano, pietrificati, con gli occhi stupiti e pieni di paura rivolti al cielo. Cosa succedeva? Il tuono in una notte d’inverno? Era il presagio che la terra si sarebbe squarciata inghiottendoci tutti? Il mare si sarebbe gonfiato fino a sommergerci e il nostro campo da gioco sarebbe diventato un’altra Atlantide? Un altro colpo di tuono segui il primo, senza lampi, poi, dopo un attimo, ce ne fu un terzo e comincio a piovere, una pioggia leggera all’inizio che si trasformo presto in un rovescio torrenziale, un caldo temporale primaverile che ci dava il benvenuto nel 2000. Barcollando, mi rialzai e, dopo essere rimasto vestito fino allora, mi spogliai, restando nudo a Broadway, nella 41a, con i piedi piantati a terra e la testa alzata verso il cielo, lasciando che la pioggia mi purificasse dal sudore, dalle lacrime e dalla stanchezza, lasciando che mi sciacquasse la bocca dal gusto acido del vomito. Fu un attimo stupendo. Ma subito sentii freddo. Aprile se ne stava andando ed era nuovamente dicembre. Stavo tremando dalla testa ai piedi. Abbrancai i vestiti fradici d’acqua; e, ormai sobrio, zuppo, avvilito, intimidito, immaginando banditi e borsaioli nascosti in ogni vicolo, mi misi in cammino, lentamente, trascinandomi per la citta verso casa.

La temperatura sembrava diminuire di cinque gradi ogni dieci isolati; quando raggiunsi l’East Side mi sentivo congelato, e mentre attraversavo la 57a, notai che la pioggia si era trasformata in neve e la neve non si scioglieva, era come una leggera patina di polvere che copriva le strade, le automobili e i corpi immobili dei morti e di quelli privi di sensi. Nevicava con inclemenza tipicamente invernale quando arrivai a casa. Erano le cinque di mattina del 1° gennaio dell’anno 2000 dopo Cristo.

Lasciai cadere i vestiti a terra e crollai nudo sul letto, tremante e indolenzito, mi rannicchiai con le ginocchia strette contro il petto, aspettandomi quasi di morire prima dell’alba. Passarono quattordici ore prima che mi svegliassi.

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