— Un gatto, signore.

— Davvero. — E grosso, anche, e color arancione vivo. Sembrava ridicolo, drappeggiato sulle spalle del sergente. — Mi faccia riformulare la domanda: cosa diavolo ci fa qui un gatto?

— E la mascotte della Squadra manutenzione, signore. — Il gatto alzo la testa quanto bastava per soffiare di malavoglia contro di me, poi torno alla sua flaccida apatia.

Guardai Charlie, e quello scrollo le spalle. — Mi sembra una crudelta — disse. E al sergente: — Non se lo godra molto. A venticinque gravita, sara ridotto a un mucchietto di pelo e di budella.

— Oh, no, signore. Signori. — Il sergente scarruffo il pelo della bestiola, sulle spalle. C’era inserita una presa per il fluorocarbonio, identica a quella che avevo io sopra l’anca. — L’abbiamo comprato in un magazzino di Stargate, gia modificato. Ormai ce l’hanno moltissime astronavi, signore. Il commodoro ci ha firmato i moduli.

Be’, ne aveva il diritto; la Squadra manutenzione era agli ordini miei e suoi, congiuntamente. E l’astronave era sua. — Non potevate prendere un cane? — Dio, i gatti li odiavo. Sempre in giro a curiosare.

— No, signore, non si adattano. Non sopportano la caduta libera.

— Avete dovuto fare qualche adattamento speciale? Nella vasca? — chiese Charlie.

— No, signore. Avevamo una cuccetta in piu. Magnifico: voleva dire che sarei finito in vasca con quell’animale. — Abbiamo dovuto solo accorciare le cinghie.

'Occorre un tipo di droga diverso per rafforzare le pareti delle cellule, ma era compreso nel prezzo.'

Charlie gratto il gatto dietro l’orecchio. Quello fece sommessamente le fusa, ma non si mosse. — Mi sembra stupido. L’animale, voglio dire.

— Lo abbiamo drogato in anticipo. — Non c’era da meravigliarsi che fosse cosi inattivo: la droga rallenta il metabolismo al punto necessario per mantenere esclusivamente le funzioni vitali.

— Credo sia tutto in regola — dissi io. Forse era utile, per via del morale. — Ma se comincia a venirmi tra i piedi, lo riciclero personalmente.

— Si, signore — disse il sergente, visibilmente sollevato, convinto che io non avrei mai fatto una cosa simile a quel delizioso batuffolo di pelo. Mettimi alla prova, amico.

Cosi avevamo visto tutto. Restava una cosa sola, al di qua dei motori: l’enorme stiva dove attendevano i caccia e i missili, fissati alle massicce imbragature. Io e Charlie scendemmo a dare un’occhiata, ma non c’erano finestre da questa parte del vano stagno. Sapevo che ce n’era una all’interno, ma la camera era a vuoto d’aria, e non valeva la pena di cominciare il ciclo per riempirla e scaldarla solo per soddisfare la nostra curiosita.

Cominciavo veramente a sentirmi in soprannumero. Chiamai la Hilleboe e lei disse che era tutto a posto. Avevamo un’altra ora da far passare: tornammo in salone e facemmo organizzare dal computer una partita di Kriegspieler, che cominciava giusto a diventare interessante quando suono il preallarme dei dieci minuti.

Le vasche di accelerazione avevano una 'emivita di guasto' di cinque settimane; ossia c’erano cinquanta probabilita su cento che tu potessi restarci immerso per cinque settimane senza che saltasse una valvola o un tubo e che tu finissi spiaccicato come un verme sotto un tacco. In pratica, doveva capitare un caso d’emergenza eccezionale, per dovere usare le vasche per un’accelerazione superiore alle due settimane. E noi dovevamo starci solo dieci giorni, in quella prima tappa del viaggio.

Cinque settimane o cinque ore, del resto, erano lo stesso, per quanto riguardava quelli che stavano nelle vasche. Quando la pressione saliva a livello operativo, perdevi il senso del tempo. Il corpo e il cervello diventavano come cemento. I sensi non fornivano informazioni, e ti potevi divertire per parecchie ore semplicemente cercando di sillabare il tuo nome.

Percio non mi sorprese affatto se pareva che non fosse passato neanche un minuto quando mi ritrovai improvvisamente asciutto, formicolante per il ritorno delle sensazioni. Sembrava di essere a un congresso di asmatici in un campo di fieno; trentanove persone e un gatto che tossivano e sternutivano per liberarsi degli ultimi residui del fluorocarbonio. Mentre stavo slacciandomi le cinghe, la porta laterale si apri, inondando la vasca d’una luce dolorosamente intensa. Il gatto usci per primo e tutti gli altri si affrettarono a seguirlo. Per salvare la mia dignita, me ne andai per ultimo.

Fuori c’era un centinaio di persone, e tutti si stiracchiavano e si massaggiavano per liberarsi dai crampi. Dignita! Circondato da centinaia di metri quadrati di giovani carni femminee, le guardai in faccia e in preda alla disperazione cercai di risolvere mentalmente un’equazione differenziale di terz’ordine, per inibire il riflesso galante. Era un espediente temporaneo, ma mi servi per arrivare all’ascensore.

La Hillaboe stava urlando ordini e metteva in fila la truppa, e mentre le porte si richiudevano, notai che tutti quelli di un plotone avevano una lividura leggera e uniforme, dalla testa ai piedi. E venti paia di occhi pesti. Avrei dovuto parlarne tanto con la Squadra manutenzione quanto con il servizio medico.

Dopo essermi rivestito.

30

Restammo a una gravita per tre settimane, con qualche breve periodo di caduta libera per controllare la rotta, mentre la Masaryk II descriveva una lunga, stretta ellisse allontanandosi dalla collapsar Resh-10, e ritornava indietro. In quel periodo ando tutto bene: tutti si adattarono alla routine di bordo. Li feci lavorare il meno possibile, e li sottoposi invece a un intenso ripasso dell’addestramento e a parecchia ginnastica… per il loro bene, anche se non ero tanto ingenuo da illudermi che se ne rendessero conto.

Dopo circa una settimana a una gravita, il soldato semplice Rudkoski, l’aiutante del cuoco, aveva improvvisato una distilleria, e produceva otto litri giornalieri di alcool etilico al 95%. Non avevo nessuna intenzione di impedirglielo, dato che la vita a bordo era gia abbastanza squallida, e non me ne importava, purche si presentassero sobri in servizio. Ma ero curioso di sapere come riuscisse a dirottare le materie prime dalla nostra ecologia a circuito chiuso, e come facessero i soldati a pagarsi da bere. Percio mi servii della scala gerarchica a rovescio, incaricando l’Alsever di scoprirlo. Lei lo chiese a Jarvil, che lo domando a Carreras, che ando a fare quattro chiacchiere con Orban, il cuoco. Salto fuori che era stato il sergente Orban a organizzare tutto, e che lasciava a Rudkoski la parte piu sporca del lavoro: e moriva dalla voglia di vantarsene con qualcuno degno della sua fiducia.

Se qualche volta avessi consumato i pasti insieme alla truppa, avrei capito che stava succedendo qualcosa di strano. Ma la congiura non si estendeva fino al livello degli ufficiali.

Per mezzo di Rudkoski, Orban aveva organizzato un’economia basata sull’alcool. Le cose andavano cosi:

Ogni pasto includeva un dessert molto ricco di zucchero — gelatina, crema o budino — che tu eri libero di mangiare, se riuscivi a sopportarne il sapore. Ma se era ancora sul tuo vassoio quando lo presentavi allo sportello del riciclaggio, Rudkoski ti dava un gettone da dieci centesimi e rovesciava il dolce zuccherato in una vasca a fermentazione. Aveva due vasche da venti litri, una delle quali 'lavorava' mentre si riempiva l’altra.

Il gettone da dieci centesimi era la base di un sistema che ti consentiva di comprare mezzo litro di alcool etilico puro (gusto a scelta) per cinque dollari. Una squadra di cinque persone che saltasse i dessert poteva comprarsi circa un litro alla settimana: abbastanza per una festicciola, ma non abbastanza per costituire un attentato alla salute di tutti.

Quando Diana Alsever mi porto queste informazioni, porto anche una bottiglia di Boiata Rudkoski… 'Boiata' intesa alla lettera: era un sapore riuscito male. La bottiglia aveva salito la scala gerarchica perdendo solo due dita di contenuto.

Il sapore era una combinazione spaventosa tra la fragola e i semi di comino. Con la depravazione abbastanza frequente tra le persone che bevono di rado, Diana ne era entusiasta. Mi feci portare un po’ d’acqua ghiacciata, e dopo un’ora lei era completamente partita. In quanto a me, me ne versai un bicchiere e non lo finii.

Quando Diana fu ben avviata sulla strada verso l’oblio, mormorando al proprio fegato un soliloquio rassicurante, all’improvviso alzo la testa e mi fisso con franchezza infantile.

— Tu hai un grosso problema, maggiore William.

— Molto meno grave di quello che avrai tu domani mattina, tenente medico Diana.

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