«Sweetie, mi pare si chiamasse.»

Paulsson la guarda con una luce strana negli occhi.

«Dov’e Sweetie?»

«Sweetie siamo io e Gilly» replica Paulsson con un sorrisetto.

«Non faccia lo spiritoso» lo avverte Lucy. «Non mi sembra proprio il caso.»

«Suz mi chiamava Sweetie. E chiamava Sweetie anche Gilly.»

«Ti ha dato la sua risposta» dice Benton. «Non insistere. Vattene.»

«Non c’e mai stato nessun cane. Suz vi ha raccontato un cumulo di stronzate.» Paulsson quindi le chiede: «Chi e lei?». Lucy capisce che cosa ha in mente e non si lascia cogliere di sorpresa quando lo vede alzarsi dalla sedia e intimarle: «Mi dia quella penna. L’hanno mandata qui per arrestarmi, vero? E il suo mestiere, vero? Si guadagna il pane cosi? Be’, e tutto sbagliato e sono certo che se ne rende conto anche lei. Mi dia la penna».

Lucy resta ferma con le mani sui fianchi.

«Esci» le dice Benton. «Vattene prima che puoi.»

«Si guadagna bene a fare questo mestiere?» Le si para di fronte, ma Lucy ha capito le sue intenzioni.

«Vattene» insiste Benton. «Ti ha detto tutto quello che ci serviva.»

«Vuole la telecamera?» chiede Lucy a Paulsson. «Vuole il registratore?» Lucy non ha registratori: e stato Benton a registrare il colloquio. «E proprio sicuro?»

«Facciamo finta che non sia successo niente» propone Paulsson con un sorriso. «Mi consegni i nastri. Ha avuto le informazioni che cercava, no? Scordiamoci quello che e successo. Su, me li dia.»

Lucy batte sull’interfaccia cellulare agganciata a un passante della cintura e collegata alla telecamera attraverso un filo nascosto all’interno della tuta da volo e lo schermo di Benton si spegne all’improvviso. Adesso Benton sente le voci, ma non vede piu niente.

«No» le dice nell’orecchio. «Esci. Vattene.»

«Sweetie» dice Lucy a Paulsson in tono di scherno. «Sa che non riesco a immaginare che a una donna venga in mente di chiamarla cosi, dottore? Mi fa schifo. Se vuole le registrazioni, se le venga a prendere.»

Paulsson le si getta addosso e lei gli molla un pugno. Paulsson cade a terra con un gemito e Lucy ne approfitta, lo volta sulla schiena e gli punta un ginocchio sul braccio destro, tenendogli il sinistro piegato all’indietro con la mano.

«Mi lasci!» grida lui. «Mi fa male!»

«Lucy, no!» le dice Benton nell’orecchio. Ma Lucy non lo ascolta.

Afferra Paulsson per i capelli, ansimando rabbiosa, e glieli tira fino a fargli sollevare la testa da terra. «Spero che ti sia divertito oggi, Sweetie» gli dice, mollandoglieli di colpo. «Sai quanto mi piacerebbe spaccarti la faccia? Hai molestato anche tua figlia, bastardo? L’hai messa in mano ai pervertiti che invitavi a casa tua? Che cosa le hai fatto, porco?» Gli spinge la faccia contro il pavimento, come se volesse affogarlo nelle mattonelle bianche. «Quante vite hai rovinato?» Gli sbatte la testa per terra, abbastanza forte da fargli capire che potrebbe ammazzarlo. Paulsson geme di dolore.

«Lucy, smettila!» urla Benton. «Esci subito di li!»

Lucy sbatte le ciglia e riprende il controllo. Non puo ammazzare Paulsson, non deve. Lo molla, gli tira un calcio e si trattiene dal dargliene altri. Ha il respiro corto, e sudata. Avrebbe voglia di spaccargli la faccia, di prenderlo a calci, di picchiarlo a sangue, di ammazzarlo di botte. «Non ti muovere» gli intima, arretrando e cercando di calmarsi. «Stai fermo dove sei.»

Prende i moduli che ha lasciato sulla scrivania, indietreggia fino alla porta e la apre. Paulsson resta immobile per terra, la faccia sul pavimento, un rivolo di sangue che scivola sulle mattonelle bianche.

«Sei finito, dottore» lo schernisce Lucy sulla porta. Chiedendosi dove sia la segretaria cicciottella, guarda giu, ma non la vede. Il silenzio e totale: probabilmente in casa ci sono solo lei e Paulsson, come lui aveva pianificato. «Sei finito. E ringrazia che non sei morto» conclude, prima di chiudere la porta.

47

Lungo le stradine strette del campo di addestramento, cinque agenti armati di Storm Beretta da nove millimetri con mirino Bushnell e illuminatore laser si muovono a ventaglio intorno a una casa con il tetto di cemento.

E una casa piccola, malconcia, con un giardinetto pieno di lucine e decorazioni natalizie. Si sente abbaiare un cane. Gli agenti hanno il fucile a tracolla, a quaranta gradi, sono vestiti di nero e non hanno giubbotto antiproiettile, cosa insolita in un raid.

Rudy Musil e barricato dentro la casa, dietro una serie di tavoli e seggiole che ha rovesciato contro la porta della cucina. E in tuta mimetica e scarpe da tennis e ha un AR-15, che non e un’arma leggera come lo Storm, ma un fucile d’assalto ad alta potenza con canna da venti pollici, capace di uccidere un uomo a trecento metri di distanza. Calmissimo, si sposta verso la finestra accanto al lavello. Guarda fuori e vede qualcosa che si muove dietro il cassonetto, a una cinquantina di metri dalla casa.

Appoggia il fucile sul bordo del lavello, con la canna sul davanzale marcio della finestra e guarda nel mirino il nemico vestito di nero accucciato dietro il cassonetto. Fa fuoco e l’agente urla. Salta fuori un altro agente, che si getta a terra dietro la palma. Rudy spara anche a lui. Questo non emette suono, o perlomeno Rudy non sente niente. Torna verso la porta e comincia a prendere a calci tavoli e sedie, rabbioso. Abbatte la sua stessa barricata, si sposta nel salotto sul davanti, spacca la finestra e comincia a sparare. Nel giro di cinque minuti colpisce i cinque agenti con proiettili di gomma, ma questi non si fermano finche non glielo ordina lui per radio.

«Siete una massa di imbecilli» urla alla radio, sudato, da dentro la casa usata per le simulazioni nel campo di addestramento. «Siete morti tutti e cinque.»

Esce e gli agenti vestiti di nero si avviano stoicamente verso il giardinetto con le decorazioni natalizie. Non si lamentano, benche i proiettili di gomma facciano un male terribile. Sopportano senza dire nulla. Rudy spegne con il telecomando il CD del cane che abbaia e li guarda dalla porta. Hanno il respiro corto, sono sudati e arrabbiati. «Che cosa e successo?» chiede loro. «Lo sapete, vero?»

«Abbiamo sbagliato tutto» risponde uno.

«Dove avete sbagliato?» domanda Rudy, con il fucile d’assalto sul fianco. Il sudore gli cola sul torso nudo e sulle braccia muscolose. «Riflettete, prima di rispondere: avete commesso un errore e siete morti tutti.»

«Non abbiamo messo in conto che potevi avere un fucile d’assalto. Abbiamo dato per scontato che avessi una pistola» dice una donna, asciugandosi la faccia nella manica, con il fiatone. E stanca e nervosa.

«Non bisogna mai dare niente per scontato» replica Rudy. «Avrei potuto avere anche un mitragliatore, per quel che ne sapevate, e crivellarvi di proiettili calibro cinquanta. L’errore principale e un altro. Su, forza, non potete non saperlo. Ne abbiamo parlato un sacco di volte.»

«Abbiamo sfidato il nostro maestro» replica uno, provocando le risate degli altri.

«La comunicazione» dice Rudy, lentamente. «Andrews» dice poi rivolgendosi a un agente con la tuta sporca di terra. «Appena ti sei beccato la pallottola alla spalla sinistra, avresti dovuto avvertire i tuoi compagni che stavo sparando dalla finestra della cucina, sul retro della casa. L’hai fatto?»

«No.»

«E perche?»

«Non so. Forse perche non mi era mai capitato prima di prendermi una pallottola nella spalla.»

«Fa male, vero?»

«Un male boia.»

«Infatti. E tu non te l’aspettavi.»

«Esatto. Nessuno ci ha detto che i fucili sarebbero stati carichi.»

«In questo campo di addestramento usiamo proiettili di gomma» dice Rudy. «Quando ci succede qualcosa nella vita vera, spesso e qualcosa che non ci aspettiamo. Sei stato colpito, ti sei fatto male, ti sei spaventato e il risultato e che non hai avvertito i tuoi compagni. Cosi siete rimasti uccisi tutti. Chi ha sentito il cane?»

«Io» rispondono diversi agenti.

«Sentite un cane che abbaia e non prendete la radio per avvertire gli altri?» domanda Rudy provocatorio. «Se il cane abbaia, vuol dire che quello dentro la casa sa che state arrivando. Dico bene?»

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