Mancava ormai una manciata di secondi allo scadere del tempo, quando Deidra Blasey recise il cavo dell’ultimo ordigno. Il sudore le rigava le guance simile a un fiume di lacrime. Un grido di gioia usci dalle bocche dei presenti, ma fu coperto dall’urlo dei tifosi che protestavano per un’azione fallosa non rilevata dall’arbitro.
«Ho proprio bisogno di una rinfrescata», disse Deidra, allontanandosi verso le piu vicine toilette.
«Speriamo che non ce ne siano altri. Ma lo sapremo presto», disse Breil dando via al conto alla rovescia.
«Venti… quindici… dieci… cinque… quattro… tre… due… uno…»
«Il signor Breil e pregato di contattare urgentemente il centralino», gracchiarono gli altoparlanti.
«Deve festeggiare la sua prima vittoria nei miei confronti, Breil», disse la voce metallica e contraffatta.
«Lei e un assassino spietato, Giusto. Si immagina che cosa sarebbe successo se alcuni chilogrammi di T4 fossero saltati in aria con tutto il corredo di ferramenta…»
«In totale dieci chilogrammi di esplosivo e quasi un quintale tra viti, chiodi e bulloni d’acciaio. Le assicuro che non e stata una passeggiata portare tutta quella roba sui tralicci. Peccato. Lei mi ha negato un ottimo spettacolo. Pero questa nostra sfida ha il potere di eccitarmi enormemente. Alla prossima, Breil.»
Sono molti gli aneddoti che tendono a offuscare la fama della Central Intelligence Agency. Uno di questi vuole che l’agenzia statunitense sia l’ultima a venire a conoscenza dei fatti di interesse nazionale.
Non era stato cosi per quello che era accaduto nello stadio cipriota.
Glakas aveva preavvertito i suoi uomini sull’isola non appena ricevuta la telefonata del Giusto. Naturalmente aveva tenuto nascosto il suo contatto e quanto lui fosse invischiato nella faccenda. Lo scopo di quella telefonata sarebbe stato, ad attentato avvenuto, di dimostrare ai superiori che lui era sulle tracce del terrorista, ma che, purtroppo, era arrivato tardi.
Non appena gli erano stati segnalati i movimenti di Cassandra Ziegler e Oswald Breil, aveva inviato un paio di uomini di rinforzo allo scarso organico presente sull’isola.
Il dirigente della CIA aveva seguito in diretta il disinnesco degli ordigni all’interno del 20 Temmuz Stadyum di Kyrenia, collegato via cellulare con uno dei suoi che non aveva mai perso di vista la Ziegler.
Il telefono privato di Glakas prese a suonare nello stesso istante in cui Oswald Breil, a migliaia di chilometri di distanza, interrompeva la chiamata con il terrorista.
«Sono convinto che non ti sei perso la scena, Glakas», disse la solita voce metallica.
«I miei uomini mi hanno tenuto al corrente. Questa volta hai fallito, Giusto.»
«No, ho solamente perso la battaglia che avevo messo in conto di perdere per vincere la guerra. E tu sai di che guerra sto parlando, vero?»
La voce assunse un tono quasi isterico, e cio non aveva nulla a che vedere con il marchingegno elettronico che l’alterava: il Giusto sembrava aver perso la sua proverbiale calma.
«No, non so di che guerra parli.»
«Vedrai, Glakas, vedrai. Anche loro avranno paura a camminare per la strada, avranno paura a mandare a scuola i loro figli, avranno paura a vivere. Anche loro come noi, Glakas.»
Glakas assunse un’aria pensosa non appena il Giusto interruppe la conversazione. Vincere quella guerra interessava anche a lui. Ma l’avrebbe fatto senza il Giusto, che diventava una presenza sempre piu scomoda e pericolosa.
Era arrivato il momento di rendere inoffensivo il serial bomber.
52
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
«Ricordo ancora il contenuto della lettera con cui Minhea mi comunico la sua decisione di trattenersi in America per qualche tempo, dopo che gia aveva fatto la spola diverse volte tra l’Europa e il nuovo continente alla vana ricerca dell’Anello dei Re. Qualche cosa mi diceva che difficilmente sarebbe ritornato in patria. Pensi, Asher, abbiamo combattuto assieme su quelle vette», aveva detto l’anziano generale Sciarra, indicando le montagne che circondavano Cortina. Quindi si era messo a declamare quasi a memoria il testo della lettera.
«Nessuna cosa, Alberto caro, mi lega piu al mio paese, se non il dovere che ho nei confronti di un impegno che ho giurato di rispettare, cosi come hanno fatto, prima di me, i miei avi: avere cura dell’Anello dei Re e conservarlo anche a costo di mettere a repentaglio la propria vita. Io purtroppo ho disatteso al giuramento. E il mio compito, ora, e quello di recuperare l’antico talismano dei principi di Valacchia. Sono convinto che il tenente Blasko — o come diavolo si fara chiamare lui adesso — non ha ancora lasciato gli Stati Uniti. Devo riuscire a scovare il suo nascondiglio. Fraternamente ti abbraccio. New York, 1925.»
Stati Uniti d’America, 1921-1925
Bela Blasko non si nascondeva affatto, anzi aveva solamente voglia di «apparire». Aveva cambiato ancora una volta nome, ma per un semplice gioco delle circostanze…
«Blasto?» gli aveva chiesto l’agente dell’Immigration Office.
«Blasko!» aveva ripetuto per l’ennesima volta l’ungherese.
«E come si scrive Bela Blasko?» Non che fosse duro di comprendonio, ma l’America non voleva che la forza lavoro rappresentata dagli immigrati rimanesse ancorata alle sue antiche origini: il nome era parte delle radici che l’immigrato avrebbe dovuto recidere per poter diventare un vero americano.
Chi si apprestava a calcare il suolo degli Stati Uniti doveva essere sano di costituzione, non presentare gibbosita o mutilazioni e non mostrare altre deformazioni scheletriche. E l’ungherese soddisfaceva questi requisiti. Poco, se non nulla, importava al paese come aveva dichiarato di chiamarsi l’ennesimo clandestino senza passaporto che veniva accolto sul suolo americano.
«Come si scrive Blasko?» chiese ancora l’agente.
«Scriva Lugosi, Bela Lugosi», disse l’ungherese tracciando le lettere sul piano del polveroso tavolo nell’ufficio immigrazione. Quel nome sarebbe stato il suo tributo alla citta di Lugos, in Romania, che lo aveva visto nascere nell’ottobre del 1882.
Erano trascorsi alcuni anni da quel giorno. Bela ricordava ancora quando, seduto in un tram affollato, aveva