ho detto, non metteva disordine. Diceva che doveva toccare ad altri della sua specie che s’intendevano di queste cose.»
«Archeologi?»
«E la parola che cercavo. Mi scappava dalla lingua. Shakespeare diceva che non bisognava fare confusione e lasciare tutto agli archeologi. Loro imparano molte cose, dove lui non impara niente.»
«Ma hai detto…»
«Solo qualche oggettino. Facile da prendere in mano. Piccolo, diceva, da portar via, e magari di valore. Dice che non bisogna sputare in faccia alla fortuna.»
«E secondo Shakespeare, cosa poteva essere questo posto?»
«Aveva molte idee. Soprattutto, dopo aver pensato molto, si chiedeva se non era un posto per malfattori.»
«Vuoi dire una colonia penale.»
«A quanto ricordo, non usava queste parole. Ma pensava che era un posto per tenere quelli indesiderati altrove. Pensa che forse il tunnel non aveva mai funzionato se non in una direzione. Mai andata e ritorno, solo andata. Cosi, quelli mandati qui non potevano mai tornare indietro.»
«E ragionevole,» disse Horton. «Ma non inevitabile. Se il tunnel fu abbandonato in un lontano passato, deve essere rimasto a lungo privo di manutenzione, e progressivamente si e guastato. E non mi sembra chiaro neanche quando dici che non sai dove vai quando entri in un tunnel, o che se vi entrano due persone finiscono in posti diversi. Un sistema di trasporto a casaccio non e pratico. In condizioni simili, e improbabile che il tunnel venisse molto usato. Quel che non capisco e perche gente come te e Shakespeare se ne siano serviti.»
«I tunnel,» rispose disinvolto Carnivoro «sono usati solo da quelli cui non importa niente. Solo da quelli che non hanno scelta. Vanno in posti dove non ha senso andare. Tutti i pianeti dove portano i tunnel sono abitabili. Aria da respirare. Non troppo caldi, non troppo freddi. Non sono posti che ti ammazzano: ma molti non valgono niente. Molti posti dove non c’e nessuno, e forse non c’e mai stato nessuno.»
«Coloro che costruirono le gallerie dovevano avere una ragione per andare su tanti pianeti, anche su quelli che secondo te non valgono niente. Sarebbe interessante scoprire quella ragione.»
«I soli che possono dirtelo,» fece il Carnivoro, «sono quelli che fabbricano il tunnel. Loro sono andati. Sono altrove, o forse in nessun posto. Nessuno sa chi erano o dove cercarli.»
«Ma alcuni dei mondi dei tunnel sono abitati. Abitati da gente, voglio dire.»
«In tal caso, la definizione di gente e molto ampia e non troppo schizzinosa. Su molti pianeti dei tunnel, i guai possono arrivare in fretta. Sull’ultimo dove sono stato io, prima di venire qui, i guai non solo possono arrivare in fretta, ma sono anche grossi.»
Si erano avviati lentamente per i sentieri che si snodavano tra le costruzioni. Davanti a loro, il fitto sottobosco si chiudeva e cancellava il passaggio. Il sentiero finiva appena oltre la porta di uno degli edifici.
«Io entro,» disse Horton. «Se tu non vuoi venire, aspettami fuori.»
«Aspettero,» disse Carnivoro. «Entrare mi mette i brividi alla schiena e mi torce le budella.»
L’interno era buio. C’era un’umidita, un sentore di muffito e un freddo che arrivavano alle ossa. Horton provo l’impulso di andarsene, di tornare subito alla luce del sole. Li c’era un’alienita che si poteva percepire, ma non definire… la sensazione di essere in un luogo dove non si aveva il diritto di stare, l’impressione di disturbare qualcosa che doveva rimanere celato nel buio.
Rimase, piantando saldamente i piedi sul pavimento, sebbene avvertisse l’inizio di un brivido su e giu per la schiena. Poco a poco, i suoi occhi si abituarono all’oscurita, e comincio a distinguere i contorni. Contro il muro, sulla destra, c’era qualcosa che poteva essere solo un armadio di legno. Era traballante per la vecchiaia. Horton ebbe l’impressione che, se l’avesse urtato, si sarebbe sfasciato. Gli sportelli erano tenuti chiusi da bottoni lignei. Accanto all’armadio c’era una panca a quattro gambe, con il piano incrinato da larghe crepe. E sopra c’era un oggetto di ceramica… una brocca per l’acqua, forse, con l’orlo sbrecciato cui mancava un pezzo triangolare. All’estremita opposta del banco c’era un vaso, sembrava. Non era di ceramica. Pareva vetro, ma lo strato di polvere finissima che copriva tutto impediva di stabilirlo con certezza. Accanto al banco c’era quella che doveva essere una sedia. Aveva quattro gambe, un sedile, una spalliera inclinata. Appeso ad uno dei sostegni della spalliera c’era un pezzo di stoffa che forse era stato un cappello. Sul pavimento, davanti alla sedia, stava un piatto… un ovale di ceramica bianca, e sul piatto, un osso.
Qualcosa, si disse Horton, si era seduto li — quanti anni prima? — con un piatto in grembo, mangiando un pezzo di carne, tenendolo fra le mani, o quello che aveva al posto delle mani, rosicchiando l’osso, con la brocca dell’acqua li vicino, anche se forse non era stata acqua ma vino. E dopo aver finito, o almeno dopo aver mangiato a sazieta, aveva deposto il piatto sul pavimento, e magari si era appoggiato alla spalliera, battendosi soddisfatto sul ventre. Aveva posato il piatto con l’osso sul pavimento, ma non era mai tornato a raccoglierlo. Nessuno era mai tornato a raccoglierlo.
Rimase ritto, affascinato, a guardare il banco, la sedia, il piatto. L’alienita sembrava essere svanita, in parte, perche quella scena era tolta al passato di un popolo che, indipendentemente dalla forma, aveva alcuni elementi di una comune umanita forse estesa in tutto l’universo. Uno spuntino notturno, forse… e che cos’era accaduto, dopo?
La sedia per sedere, il banco per posarvi la brocca, il piatto per tenervi la carne… e il vaso, il vaso? Aveva un corpo globulare, il collo lungo, e la base ampia. Sembrava piu una bottiglia che un vaso, penso.
Si mosse, e tese la mano per prenderla, e involontariamente sfioro il cappello, se era un cappello, appeso alla sedia. Al suo tocco, si disintegro. Scomparve in un piccolo sbuffo di fumo che fluttuo nell’aria.
Afferro il vaso, o la bottiglia, lo sollevo, e vide che sul corpo globulare erano incise figure e simboli. Tenendolo per il collo l’avvicino agli occhi, per vedere la decorazione.
Uno strano essere stava dentro un riquadro dal tetto appuntito e sovrastato da una piccola sfera. Sembrava, penso Horton, che stesse dentro a un barattolo da te. E l’essere… era umanoide, oppure semplicemente un animale ritto su due sottili zampe posteriori? Aveva un solo braccio, e una lunga coda che s’innalzava angolarmente, rispetto al corpo. La testa era un grumo indistinto, ma sei linee rette si estendevano da essa verso l’alto e verso l’esterno: tre a sinistra, due a destra ed uno direttamente verso l’alto.
Quando fece ruotare la bottiglia (o il vaso), vide altre incisioni… linee orizzontali disposte entro due linee, una sopra l’altra, e collegate tra loro da tratti verticali. Forse edifici, si chiese, con le linee verticali che rappresentavano le colonne di sostegno del tetto? C’erano molti sgorbi e ovali storti e segni irregolari, in brevi file, che potevano essere parole di una lingua sconosciuta. E quella che poteva essere una torre, dalla cui sommita emergevano tre figure, simili a volpi uscite da qualche antica leggenda terrestre.
Fuori, dal sentiero, Carnivoro lo stava chiamando. «Horton, tutto bene?»
«Tutto bene.»
«Sono in pensiero per te,» disse Carnivoro. «Perche non esci, ti prego? Mi fai diventare nervoso, a stare li.»
«D’accordo,» disse Horton. «Se ti fa diventare nervoso.»
Si giro e varco la porta, tenendo la bottiglia.
«Hai trovato un ricettacolo interessante,» disse Carnivoro, adocchiandola con una certa apprensione.
«Si, guarda.» Horton alzo la bottiglia, girandola lentamente. «Rappresentazioni di esseri viventi, anche se non saprei dire esattamente che cosa sono.»
«Shakespeare ne aveva trovato un paio simili. Anche quelle avevano segni, ma non esattamente come la tua. E anche lui si chiedeva cosa fossero.»
«Potrebbero rappresentare coloro che vivevano qui.»
«Shakespeare diceva lo stesso, ma precisava che erano solo miti del popolo che viveva qui. Spiega che i miti sono memorie razziali, cose che il ricordo, spesso imperfetto, dice che sono avvenute nel passato.» Si agito, nervosamente. «Torniamo indietro,» propose. «Il mio stomaco brontola per reclamare nutrimento.»
«Anche il mio,» disse Horton.
«Io ho della carne. Uccisa solo ieri. Vuoi farmi compagnia?»
«Con piacere,» disse Horton. «Io ho le razioni, ma non sono buone come la carne.»
«La carne non e ancora troppo frolla,» disse Carnivoro. «Ma domani uccido ancora. Mi piace la carne fresca. La mangio frolla solo se non c’e altro. Immagino che tu metti la carne sul fuoco, come faceva Shakespeare.»
«Si, mi piace cotta.»
«C’e legna secca in abbondanza per il fuoco. E ammucchiata davanti alla casa. E c’e anche un focolare.