«Qualche indizio c’e,» disse lei. «Sappiamo che dovevano avere appendici simili a mani, con almeno tre dita, o comunque organi manipolatori equivalenti ad almeno tre dita. Sono necessari per azionare i quadri.»

«Nient’altro?»

«Qua e la,» disse Elayne, «ho trovato raffigurazioni. Dipinti, sculture, incisioni. Dentro vecchi edifici, sui muri, sul vasellame. Raffigurano molte specie di esseri viventi, ma si direbbe che una sia sempre presente.»

«Aspetta un momento,» disse Horton. Si alzo dal mucchio di legna ed entro nella casa di Shakespeare, ne usci portando la bottiglia che aveva trovato il giorno prima. Gliela porse.

«Come questa?» chiese.

Elayne fece girare lentamente la bottiglia, poi poso un dito su una figura. «E questa,» disse.

Aveva posato l’indice sull’essere che stava dentro il barattolo. «L’esecuzione e mediocre,» disse. «E l’angolazione e diversa. In altre raffigurazioni, il corpo si vede meglio, con piu particolari. I cosi che spuntano dalla testa…»

«Somigliano alle antenne che i terrestri, anticamente, usavano per captare le trasmissioni televisive,» disse Horton. «Oppure potrebbero rappresentare una corona.»

«Sono antenne,» disse Elayne. «Antenne biologiche, ne sono sicura. Forse organi dei sensi. La testa, qui, sempre solo un grumo. Non ho mai visto altro. Niente occhi, ne orecchie, ne bocca o naso. Forse non he hanno bisogno. Forse le antenne forniscono tutti i dati sensoriali necessari. Puo darsi che le teste siano soltanto grumi, supporti per le antenne. E la coda. Qui non si vede, ma la coda e ispida. Il resto del corpo, almeno da quanto ho potuto dedurre dalle altre raffigurazioni che ho visto, e sempre vago… una specie di corpo generalizzato. Naturalmente, non possiamo essere sicuri che abbiano proprio questq aspetto. Puo darsi che sia solo una rappresentazione simbolica.»

«L’esecuzione artistica e mediocre,» disse Horton. «Rozza e primitiva. Tu non penseresti che un popolo capace di costruire i tunnel avrebbe dovuto lasciare immagini migliori di se stesso?»

«L’ho pensato anch’io,» disse Elayne. «Forse non furono i costruttori dei tunnel ad eseguire queste immagini. Forse non hanno neppure senso artistico. Forse queste opere d’arte sono state eseguite da altri popoli, magari inferiori, che hanno attinto non da una conoscenza diretta, ma dal mito. Forse il mito dei costruttori dei tunnel sopravvive in gran parte della galassia, condiviso da molti popoli diversi, da molte, diverse memorie razziali che hanno resistito nei secoli.»

16.

Il fetore dello stagno era orripilante, ma si attenuava via via che Horton si avvicinava. La prima zaffata era stata peggio che laggiu, accanto all’acqua. Forse, si disse, puzzava di piu quando cominciava a disgregarsi e a dissiparsi. Li, dove era piu denso, era mascherato da altre componenti, le componenti non fetide che contribuivano a formarlo.

Lo stagno, noto Horton, era piu grande di quanto gli fosse parso quando l’aveva visto la prima volta, dal villaggio in rovina. Era placido, senza un’increspatura. La riva era sgombra: non vi crescevano cespugli, ne canne, ne vegetazione d’altro tipo. A eccezione dei piccoli rivoletti di sabbia portati dall’acqua che scendeva dal fianco della collina, la riva era di granito. Lo stagno si era formato in un conca di roccia. E com’era pulita la riva, lo era anche l’acqua. Non c’era la schiuma che ci si poteva aspettare in uno specchio d’acqua stagnante. A quanto pareva, li dentro non poteva esistere vegetazione, forse nessun forma di vita. Ma sebbene fosse pulito, non era limpido. Sembrava racchiudere un’oscurita tenebrosa. Non era azzurro ne verde… era quasi nero.

Horton s’era fermato sulla riva, tenendo in mano l’avanzo della carne. Intorno allo stagno, intorno alla sua conca, aleggiava una sorta di tetraggine che scoloriva nella malinconia, se non nella paura. Era un luogo deprimente, ma aveva un suo fascino, si disse. Era un luogo dove un uomo poteva acquattarsi e covare pensieri morbosi… morbosi e romantici. Un pittore, forse, avrebbe potuto servirsene come modello per dipingere un laghetto solitario, trasfondendo nella composizione un senso di solitudine perduta, di distacco dalla realta.

Siamo tutti perduti, aveva scritto Shakespeare in quella lunga annotazione alla fine del Pericle. L’aveva scritto solo in senso allegorico, ma li, a meno di un miglio dal punto in cui l’aveva scritto alla luce vacillante della candela grossolana, c’era la perdizione di cui aveva parlato. Aveva scritto giustamente, quello strano umano venuto da qualche altro mondo, penso Horton, perche pareva ormai che tutti fossero perduti. Nave e Nicodemus e lui stesso erano perduti nell’immensita del non ritorno, e se quanto aveva detto Elayne era vero, era perduto anche il resto dell’umanita. Forse i soli che non lo erano erano quei pochi rimasti ancora sulla Terra. Per quanto potesse essere divenuta povera, la Terra era ancora la loro patria.

Eppure, pensandoci bene, Elayne e gli altri cercatori dei tunnel forse non erano perduti come tutti gli altri. Lo erano, forse, perche non sapevano mai dove potevano finire, o che genere di pianeta avrebbero trovato: ma senza dubbio non erano perduti al punto di aver bisogno di sapere esattamente dov’erano… autosufficienti, tanto da non aver bisogno di altri umani, ne della familiarita… strani esseri che avevano superato il bisogno di una casa e di una patria. Ed era questo, si chiese Horton, il modo per sconfiggere il senso di perdizione? Non aver piu bisogno di una casa e di una patria?

Si avvicino all’orlo dell’acqua e scaglio lontano la carne. Cadde con un tonfo e scomparve immediatamente, come se lo stagno l’avesse accettata, protendendosi per prenderla, risucchiandola in se stesso. Dal centro dello spruzzo si allargarono increspature concentriche, ma non arrivarono a riva. Sparirono. Procedevano per un tratto, poi si appiattivano e scomparivano: lo stagno ritorno alla sua calma serenita, alla sua tenebrosita piatta. Come se, penso Horton, considerasse preziosa la serenita e non tollerasse perturbazioni.

Ora, penso, doveva andarsene. Aveva fatto quel che era venuto a fare, ed era tempo di andarsene. Ma non se ne ando; rimase. Come se qualcosa, li, gli dicesse di non andar via, come se, inspiegabilmente, dovesse indugiare, come un uomo indugia al capezzale di un amico morente, e vorrebbe andarsene, a disagio di fronte all’imminenza della fine, e tuttavia rimane perche sente che, andandosene troppo presto, rinnegherebbe una vecchia amicizia.

Si guardo intorno. A sinistra torreggiava il dorsale dove stava il villaggio abbandonato. Ma dal punto in cui si trovava, non se ne scorgeva traccia. Le case erano nascoste dagli alberi. Davanti a lui si stendeva una palude, sembrava, e a destra c’era una collina conica, un tumulo, che non aveva notato fino ad ora, e che non spiccava nettamente dal dorsale del villaggio.

Calcolo che era alta una sessantina di metri dal livello dello stagno. Era simmetrica; sembrava un cono perfetto, affusolato, con la punta frastagliata. Ricordava un po’ i coni delle ceneri vulcaniche, ma Horton sapeva che non lo era. A parte il fatto che evidentemente non poteva essere un cono, non sapeva spiegarsi perche ne avesse escluso immediatamente il carattere vulcanico. Vi crescevano qua e la alberi solitari, ma per il resto, l’unica vegetazione era costituita da una sorta d’erba che lo rivestiva. Mentre lo guardava, aggrotto la fronte, perplesso. Non c’era nessun fattore geologico che avesse osservato o che riuscisse a ricordare sul momento, e che potesse spiegare una formazione come quella.

Dedico nuovamente l’attenzione allo stagno, ricordando cio che aveva detto Carnivoro… che non era veramente acqua, era piuttosto una broda, era troppo densa e pesante per essere acqua.

Si accosto all’orlo, si acquatto e, cautamente, tese un dito per toccare il liquido. La superficie parve opporre una leggera resistenza, come avesse una notevole tensione superficiale. Il dito non si immerse: anzi, sotto la leggera pressione, il liquido si incurvo un poco sotto il polpastrello. Horton premette piu forte, e il dito passo. Immerse la mano, ruoto il polso in modo che il palmo, piegato a coppa, fosse rivolto verso l’alto. Alzo la mano, lentamente, e vide di aver raccolto un po’ di liquido. Era immobile nel cavo del palmo, e non filtrava tra le dita chiuse imperfettamente, come avrebbe fatto l’acqua. Sembrava tutto d’un pezzo. Santo Dio, penso Horton, un pezzo d’acqua!

Ma ormai sapeva che non era acqua. Strano, penso, che Shakespeare non avesse saputo dire nulla, se non che sembrava una broda. O forse aveva detto di piu. C’erano molte annotazioni, nel libro, e lui ne aveva letto solo pochi paragrafi. Una broda, aveva detto Carnivoro, ma non era esatto. Era piu caldo di quanto Horton avesse immaginato, e piu pesante, anche se era questione d’impressioni e, per essere certo, avrebbe dovuto pesare il liquido, e non ne aveva la possibilita. Era viscido al tatto, sfuggente. Come mercurio, ma non era mercurio: di questo era certo. Giro il polso e lascio che il fluido scorresse via. Quando fu vuoto, il palmo della sua mano rimase

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