Dopo che usci per andare al castello e che il dottore ebbe fatto la sua visita, Dunya ed io ci siamo messe al lavoro. Il povero Bruto guardava, con le robuste mascelle poggiate sulle zampe, mentre circondavamo la finestra di Zsuzsanna con corone di aglio — il Knoblauch — e intanto lei giaceva, grigia e immobile come un cadavere grazie al sedativo del dottore. Adesso l’abbaiare non la disturbera.

Quando finimmo il nostro strano lavoro e ci muovemmo verso il letto dove giaceva la sua padrona per legarle il crocifisso attorno alla gola ferita, Bruto non ci minaccio, ma batte la coda in segno di approvazione.

Ho chiesto a Dunya se desiderava restare nella casa, dal momento che era gia tardi. Lei ha detto che non poteva, che l’anziano padre si sarebbe terribilmente preoccupato, cosi l’ho fatta accompagnare a casa da uno degli uomini. Ha promesso di restare qui domani notte per fare, con Bruto, la guardia a Zsuzsanna. Per qualche ragione, la sua presenza e per me di enorme conforto. Dopo che se ne e andata, mi sono di nuovo spaventata.

Ma, quando Arkady e tornato a casa, ho dimenticato tutto quello che mi riguardava, poiche lui stava chiaramente cercando di nascondere il suo terribile stato nervoso. Infine gli ho chiesto direttamente che cosa lo preoccupasse. Ha detto che non era nulla, che, nel ritornare a casa, un lupo si era avvicinato molto ai cavalli, spaventando lui e loro, ma rassicurandomi che i lupi solitari erano paurosi e non avrebbero attaccato senza la protezione del branco.

Non gli ho creduto del tutto. Penso che sia qualcosa che abbia a che vedere con Vlad.

Altre volte, penso: “E solo il dolore. Ha perso suo padre soltanto di recente; dagli il tempo di riprendersi, non gli fare pressioni’’. Non gli posso dire: “Le leggende sono tutte vere; tuo zio e un Vampiro, e presto lo sara anche tua sorella se non lo ammazziamo…”.

Ieri sera, ho trovato un grosso dizionario tedesco-inglese nella biblioteca al piano di sopra e, seduta in una poltrona di due secoli piu vecchia di me, con il grande libro aperto in grembo, ho trovato le parole: Schwur, Bund.

Patto.

Di quale empia alleanza si tratta?

Il diario di Arkady Tsepesh

11 aprile. E passato un giorno e ancora non vi e alcun segno di Jeffries.

Non dormo molto. Quando lo faccio, ritorno nei miei sogni a quel momento di vivo panico nella foresta e mi trovo intrappolato in un’oscurita divorante, condannato a provare per sempre la puntura dei rami di pino che mi battono contro il viso, il calore del respiro dei lupi, il rumore secco di mascelle affamate in mezzo ai nitriti dei cavalli. Tiro le redini con tutta la mia forza, ma inutilmente. Le ruote del calesse girano in un cerchio senza fine, e i rami continuano a colpirmi sul viso; i cavalli non cessano di nitrire, ne i lupi di attaccare ringhiando. So che non trovero mai l’uscita da quella foresta senza fine.

Mai.

Nei miei sogni, vedo anche Jeffries, colto nel momento in cui guarda, fuori della finestra del castello che da a sud da un’altezza vertiginosa, verso la grande estensione della foresta sottostante. Vedo l’avvampare della paura sul suo viso, sul roseo cuoio capelluto dove i capelli di un biondo latteo si dividono, sulla sua fronte mentre si asciuga con delicatezza le perle di sudore con il fazzoletto con il monogramma. Vedo il terrore nei suoi occhi… e poi lo vedo cadere.

Cadere attraverso la finestra aperta, come fosse in attesa. Lo seguo attraverso quella finestra, osservando al sicuro come un uccello che si libra in volo mentre lui precipita verso il basso, con le braccia e le gambe che si agitano convulsamente, fendendo la fredda aria montana con lo stesso acuto sibilo dei denti dei lupi.

Lotta cosi freneticamente che, mentre cade, si volta verso l’alto, e riesco a vedere il terrore nei suoi grandi occhi chiari, nei suoi lineamenti contorti, nella sua bocca, aperta e congelata in un muto grido.

Giu giu, giu… Sempre in silenzio, tranne che per il suono sibilante delle sue membra che si contorcono, e un debole e lontano ringhiare che viene da qualche parte al di fuori del sogno.

Una discesa cosi lunga…

Finalmente raggiunge gli alberi e qui c’e la beffa. La sua caduta non e interrotta da essi, ne e interrotta con violenza dall’impatto di rami e cespugli, fino a cadere sul terreno ricoperto di aghi. No: quando raggiunge le cime degli alberi piu alti, i loro rami dalle punte sottili lo trapassano come dei pali appuntiti attraversandogli il torace, il collo e le braccia, i polpacci e le cosce.

Rimane impalato, lacerato, oscillando al vento che spira tra le cime degli alberi, con dei rami insanguinati di pino che fuoriescono dal suo corpo come punte di frecce primitive, un moderno San Sebastiano.

E poi sorride, i muscoli del collo che si tirano intorno al ramo che li buca, muovendosi sotto il sangue, e mi guarda con l’identica espressione deliziosamente curiosa che aveva mentre guardava il ritratto del mio antenato, e dice:

«Vlad l’Impalatore. Vlad lo Tsepesh. Nato nel dicembre del 1431. Voi siete un Impalatore, non e cosi? Uno degli uomini-lupo? Siete ben sicuro di preferirlo a Dracul…?».

Mi sveglio con il cuore che batte forte fino a farmi venire la nausea, ricordando la chiara paura nei suoi occhi mentre guardava fuori della finestra nell’ala sud, e penso: Lui non aveva paura dell’altezza, ma del suo destino. Lo vide che lo attendeva li.

Piu ci rifletto, piu comprendo che non posso andare dalle autorita di Bistritz senza altre prove. Non habemus corpus; non abbiamo un corpo, quindi il delitto non c’e. Vlad rifiutera di sospettare Laszlo per cieca lealta, e continuera a insistere che Jeffries ha semplicemente scelto di scomparire, a meno che non ci sia una prova.

Cosi, questa mattina ho pulito la pistola di papa — un lucente revolver Colt d’acciaio, la piu recente novita nelle armi da fuoco e mio ultimo dono a lui, spedito dall’Inghilterra — e l’ho messo nel calesse insieme a una lanterna.

Poi sono partito per il villaggio. Ho guidato lentamente i cavalli lungo il bosco, facendo di proposito una piccola deviazione indietro verso il castello, e ritornando nel luogo dove Stefan era apparso l’ultima volta, ma il suo fantasma non e riapparso.

Era mezzogiorno quando mi sono diretto verso il cimitero del villaggio, dove il figlio di Masika veniva seppellito. Ho legato i cavalli a un palo fuori alla chiesa e ho guardato da lontano la semplice cerimonia dei contadini.

C’era una triste bellezza nella sua semplicita. Sei rumini muscolosi portarono la bara di pino sulle spalle e la deposero accanto a una tomba scavata da poco, mentre tutte le donne cantavano i Bocete con alte voci tremanti. Non c’erano delle donne pagate per lamentarsi, ne un’elegante tomba di marmo affollata di ombre ancestrali, ne targhe d’oro; soltanto gente del paese, la famiglia, un profondo buco nella nera terra, e una lapide fatta di pietra che gli elementi avrebbero reso illeggibile nel corso di una generazione. Non c’era nemmeno un qualche senso di storia familiare; Masika Ivanovna, vestita di nero dalla testa ai piedi, era l’unica parente del giovane che partecipasse, l’unica a gettarsi sulla bara chiusa e a gemere.

Nello spazio di alcuni minuti, il piccolo gruppo di donne che le stavano attorno la tirarono via. in modo che il servizio funebre potesse cominciare. Il prete stava dietro la piccola lapide di pietra e recito il Quinto Salmo, poi la liturgia, con un tono calmo, musicale; di tanto in tanto, i partecipanti rispondevano cantando.

Ben presto la bara fu calata nella buca in attesa e coperta con manciate di terra e singole rose selvatiche. Pensai al bel ramo di rose scarlatte, che emanavano un dolce profumo dalle loro ferite, mentre giacevano calpestate sul pavimento di marmo della tomba di papa.

Quando tutto fu finito, i presenti mi evitarono, segnandosi con la croce e facendo dei gesti particolari per scacciare il malocchio: una V formata dal primo dito e dal medio che mi puntavano contro. Una delle donne che aveva aiutato Masika Ivanovna, mi sibilo qualcosa mentre passava.

Io ero sgomento e confuso da quella reazione, ma fui sollevato quando Masika Ivanovna, con le guance rotonde arrossate e luccicanti di lacrime, si avvicino e con calore mi afferro le mani.

Ci abbracciammo come parenti da lungo tempo lontani. Ripensandoci, mi sembra strano e inappropriato ma, in quel momento, provai verso di lei un legame molto forte e teneramente sentito, forte come quello che avrei potuto sentire verso lo zio o Zsuzsanna.

Mentre teneva ancora la mia mano nelle sue, fece un passo indietro e osservo il mio viso con affettuosa malinconia, come potrebbe fare una madre.

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