quei mercati e non ho nessuna voglia di farmi coinvolgere.
Ora che Barbara Hutton, l'ereditiera Woolworth, ha messo su casa nel palazzo di Sidi Hosni, secondo R. Tangeri diventera la nuova Costa Azzurra. Intende investire molto di piu nel settore edilizio e «costruire alberghi per tutti quelli che verranno qui a scaldarsi le mani alla fiamma del nostro benessere», dice. Mi dice anche che «La Rica» ha comprato il palazzo per centomila dollari, una somma inimmaginabile qui a Tangeri. Il Caudillo, come chiamano ora Franco, ne aveva offerti cinquantamila. Probabilmente stara schiattando dalla rabbia nel suo palazzo, El Pardo.
3 settembre 1946, Tangeri
P. viene per un'altra seduta di posa. Non appena apro la porta scorgo un'espressione di sfida nei suoi occhi, ma anche di divertimento e di ironia. Siamo a meta pomeriggio e fa caldo. Comincio a lavorare in silenzio come al solito, ma perdo la concentrazione e lei si mette a girare per lo studio in cerca di qualcosa di nuovo. Trova l'hashish tra i barattoli e i pennelli sul tavolo e lo annusa. Sa che cos'e, ma non l'ha mai provato. Mi chiede di fumarlo. Non l'ho mai vista nemmeno con una sigaretta tra le labbra, ma le preparo ugualmente il narghile. Dopo qualche minuto si lamenta di non provare niente. Le dico di avere pazienza e lei emette una specie di piccolo gemito, come al suo primo contatto sessuale, immagino. Ha uno sguardo remoto negli occhi, quasi si fosse ritirata dentro di se. Si lecca lentamente, sensualmente, le labbra. Vorrei posarvi la mia bocca. Mi perdo, osservando il cambiamento della luce nella stanza. P. dice: «Credo che dovresti disegnarmi come sono davvero». E quanto cerco di fare da settimane. Con movimenti rapidi, fluidi, si alza, si toglie la blusa, lascia cadere la gonna, si slaccia il reggiseno e si sfila le mutandine. Sono ammutolito. P. rimane in piedi davanti a me, i lunghi capelli neri sulle spalle nude, le mani sulle cosce a incorniciare il triangolo del pube. Lentamente si porta la punta delle dita sulle spalle e lentamente le fa scendere sui seni, fino ai capezzoli scuri che si inturgidiscono al tocco. Le dita tracciano la linea del corpo. Siamo entrambi cosi immersi nella sensualita del momento che mi sembra siano le mie dita a sfiorarla. «Io sono cosi», dice. Afferro i carboncini e i fogli da disegno, la mia mano vola su di loro rapida, audace. Devo averla disegnata sei, sette, otto volte nello spazio di pochi minuti. Finisco e i fogli scivolano sul pavimento. Lei continua a starmi davanti, eretta, nuda, di una bellezza assoluta, con la suprema sicurezza della donna completa ed e quell'essenza misteriosa che io sto vedendo e che riesco a cogliere. Poi, come accade ogni tanto con l'hashish, all'improvviso e tutto diverso. P. si riveste, si avvia alla porta e io rimango li in piedi, con i disegni ai miei piedi. Li guarda, poi guarda me. «Ora sai», dice. Le sue labbra mi sfiorano la bocca morbide come la sabbia e fresche come l'acqua, il lampo della sua lingua sulla mia rimane con me per ore.
20 settembre 1946
Tornato da Tarragona ho saputo che P. e in Spagna con sua madre. E morta una sorella della madre. Il dottore non sa quando ritorneranno. Mi sento orfano e stranamente libero. Ahmed e il suo amico vengono qui la sera e io sono in vena di baldorie. Notte di totale edonismo.
23 settembre 1946
Mostro a Carlos i disegni a carboncino. E sbalordito. Per la prima volta dice qualcosa sul mio lavoro e la parola e «eccezionale». Piu tardi, mentre fumiamo insieme, dice: «Vedo che e cominciato il disgelo. Spero che Ahmed e Mohammed ti siano stati di aiuto». Lo guardo come se non capissi di che cosa stia parlando. Dice che me ne mandera altri. «Non voglio che ti annoi.» Io non parlo.
30 ottobre 1946
Ancora nessuna notizia da P., e ora anche suo padre e partito per la Spagna. L'unico possibile indirizzo per rintracciarli e Granada. R. ha venduto un terreno a un americano che vuole costruire un albergo. Una condizione per la vendita del terreno e che siamo noi a costruire. E il nostro primo contratto importante. Io vorrei occuparmi del progetto, ma R. insiste perche tenga separati lavoro e arte. «Tutti quelli che hanno rapporti di affari con me sanno che tu sei il mio consulente per la sicurezza… non posso farti anche progettare la reception.»
Venerdi 20 aprile 2001, casa di Falcon, calle Bailen, Siviglia
Farsi strada a gomitate attraverso l'oblio non era facile. Com'era possibile che il sonno potesse risultare cosi estenuante? Falcon affioro alla superficie, farfugliando come un vecchio abbandonato da tutti in una casa di riposo per invalidi ormai vicini alla destinazione finale. Il suo cellulare stava squillando, gli parve di ricevere una scarica di scintille attraverso le ossa del volto. Il palato era asciutto, arido. Lo squillo cesso. Falcon torno a sprofondare nella tomba di ovatta del sonno indotto dalle pillole.
Erano passate ore o solo minuti? Il folle squillo del telefonino pareva scavare una galleria nella sua testa. Emerse dal sonno con violenza, agitando le braccia. Trovo la luce, il telefono, il pulsante, succhio acqua fredda per ammorbidire la lingua, diventata un blocco di argilla.
«Inspector Jefe?»
«Aveva chiamato prima?»
«No, signore.»
«Che c'e?»
«Abbiamo appena avuto la segnalazione di un altro cadavere.»
«Un altro cadavere?» ripete Falcon, la testa completamente imbottita.
«Un omicidio. Come Raul Jimenez, stessa cosa.»
«Dove?»
«A El Porvenir.»
«Indirizzo?»
«Calle de Colombia, numero 25.»
«Conosco questo indirizzo.»
«La casa appartiene a Ramon Salgado, Inspector Jefe.»
«E lui la vittima?»
«Non siamo ancora sicuri. Abbiamo appena mandato sul posto una pattuglia. Il cadavere e stato visto dal giardiniere dall'esterno.»
«Che ore sono?»
«Le sette appena passate.»
«Non chiami nessun altro del gruppo. Vado da solo», disse Falcon. «Ma sara meglio avvertire il Juez Calderon.»
Mentre interrompeva la comunicazione il nome lo trapasso come una lama. Sotto la doccia tenne il capo chino, le braccia indebolite dalla crudelta delle parole di Ines, la sera prima. Quasi si mise a singhiozzare all'idea di affrontare Calderon. Si raso, guardandosi nello specchio da ogni angolazione con aria interrogativa. Non ne avrebbero parlato, certo che no. Come si poteva parlare di tali argomenti tra uomini? Sarebbe stata la fine di ogni rapporto con Calderon. «Cose… che tu non saresti nemmeno capace di sognare.»
Infilo la testa sotto l'acqua fredda, mando giu un Orfidal, si vesti e sali in auto. Controllo i messaggi al primo semaforo rosso: una chiamata alle 2.45. Il messaggio registrato cominciava con una musica, l'Adagio di Albinoni, attraverso la quale si udiva uno squittio soffocato, disperato come se qualcuno, imbavagliato, cercasse di gridare o di supplicare. Mobili rovesciati sul pavimento di legno, poi la musica aumentava di volume, i violini sottolineavano la sofferenza di una perdita. Poi una voce pacata: «Sai che cosa fare».
Nella musica penetro un osceno gorgoglio, un rantolo che poteva essere prodotto soltanto da una gola premuta. La lotta continuo attraverso i picchi emotivi dell'Adagio mentre i tonfi dei mobili diventavano frenetici, poi uno schianto e un silenzio improvviso un attimo prima che i violini si riaffermassero su una nota ancora piu alta e la comunicazione venisse interrotta.
I clacson suonarono inviperiti alle sue spalle e Falcon riparti verso il fiume e un altro semaforo rosso.