«Si, lo capisco. Gli altri disegni sono perfetti… un'osservazione meticolosa. Ma questo… questo e diverso. Svela e, si, proibisce. Forse e questo, la natura del mistero e che rivela qualcosa di se, attira, ma alla fine proibisce l'accesso definitivo alla conoscenza.»

Per caso Charles Brown ha fumato? mi domando. Ma e sincero, di nuovo insiste per avere un prezzo, e io non cedo. Mi dice che il suo cliente deve assolutamente vedere questo lavoro. Io rifiuto di farlo uscire dallo studio. Termina la discussione dicendo: «Stia tranquillo, portero la montagna a Maometto».

Se ne va, dopo avermi stretto la mano umidiccia. Tremo per l'eccitazione, sono in un bagno di sudore tanto che mi spoglio completamente e mi stendo, nudo, sul pavimento. Fumo una sigaretta di hashish, una della mezza dozzina che mi preparo tutte le mattine. Guardo il disegno di P. Priapo non e nulla al mio confronto, e, come per telepatia, arriva un ragazzo mandatomi da C, che da sfogo alle valvole.

4 novembre 1946, Tangeri

Rimango nella mia camera per due giorni in uno stato di voluta noncuranza, l'orecchio addestrato e perfettamente sintonizzato sul piu lieve colpetto alla porta di casa. Mi addormento e quando qualcuno bussa davvero mi proietto fuori dal sonno come un uomo appena estratto dalla nave che affonda. Armeggio con il chiavistello e cerco di vestirmi allo stesso tempo, una scena comica, perche a svegliarmi e stato il ragazzo di casa che ora e in piedi accanto al mio letto con una busta in mano. All'interno un biglietto con caratteri dorati in rilievo, un biglietto di Barbara Woolworth Hutton. La signora scrive di suo pugno per chiedere il permesso di fare visita a Francisco Gonzalez nel suo studio il 5 novembre 1946 alle 14.45. Mostro il cartoncino a R. che rimane impressionato, lo capisco benissimo. «C'e un problema», dice. A R. piacciono i problemi e per questo ne crea in continuazione. Il problema e il mio nome.

«Nominami un Gonzalez che abbia fatto qualcosa di notevole nel mondo dell'arte», dice R.

«Julio Gonzalez, lo scultore», dico.

«Mai sentito», dice R.

«Lavorava con il ferro, forme geometriche astratte. E morto quattro anni fa.»

«Sai che impressione fa a me Francisco Gonzalez? L'impressione di un venditore di bottoni.»

«Perche di bottoni?» domando, ma lui mi ignora.

«Qual e il nome di tua madre?»

«Non posso usare il nome di mia madre», dico.

«Perche no?»

«Non posso e basta.»

«Ma qual e?»

«Falcon», rispondo.

«No, no, no, que no… esto es perfecto! Francisco Falcon. Da ora in poi questo sara il tuo nome.»

Cerco di dirgli che non e possibile, ma non voglio rivelare di piu, percio accetto il mio destino. Sono Francisco Falcon e devo ammettere che il nome ha qualcosa… a parte l'allitterazione, ha anche ritmo, come Vincent van Gogh, Fabio Picasso, Antoni Gaudi, perfino il piu semplice Joan Miro… hanno tutti il ritmo della fama. A Hollywood l'hanno capito e per questo abbiamo Greta Garbo e non Greta Gustafson, Judy Garland e non Frances Gumm: Frances Gumm assolutamente no.

5 novembre 1946, Tangeri

E venuta come aveva detto e io sono completamente impazzito. Stasera non ho fumato, non voglio che lo scintillio di diamante di questo momento si perda nei fumi dell'hashish. E arrivata, accompagnata da Charles Brown, monumentale accanto a lei e di una deferenza totale. Sono colpito dalla straordinaria grazia ed eleganza della signora, dalla perfezione del suo vestito, dalla morbidezza dei guanti, probabilmente fatti con la pelle delicata del ventre di un capretto di cinque settimane. Cio che mi piace di piu in lei e la naturale espressione di disapprovazione. La sua ricchezza, che la incornicia come un'aura e la separa dai comuni mortali, l'ha resa esigente, ma quando cade, credo che si faccia molto male. I suoi tacchi risuonano costosamente sui miei pavimenti di piastrelle di ceramica. Dice: «Eugenia Errazuriz si innamorerebbe di questo pavimento». Chiunque essa sia.

Io sono ipnotizzato da lei, ma stupisco me stesso perche non sono ammutolito come al solito mentre l'accompagno nello studio. La mia tecnica ormai e piu raffinata di quella di R. e questa volta il disegno di P. non e nemmeno esposto. La signora fa il giro della stanza mettendo con cura un piede davanti all'altro mentre Charles Brown le mormora qualcosa all'orecchio che immagino rivestito di madreperla. Lei ascolta e annuisce. E interessata alle forme moresche, passa rapidamente davanti ai cupi paesaggi russi, indugia davanti ai disegni di Tangeri. Gira sui tacchi. Si e tolta i guanti che tiene mollemente nella mano piccola e bianca. «Questi disegni sono eccellenti», dice. «Notevoli. Originali. Davvero diversi. Emozionanti. Ma Charles mi dice che lei ha qualcosa che supera perfino l'eccellenza di questi lavori che ha avuto la bonta di lasciarmi vedere.»

«So a che cosa si riferisce. Ho detto al signor Brown che non era in vendita, percio ho ritenuto che non fosse corretto mostrarglielo.»

«Desidero solo vederlo», dice lei. «Non vorrei mai portarle via una cosa che per lei e tanto importante.»

«Allora e inteso. Mi segua», dico.

Ho sistemato il disegno in modo che sia perfettamente illuminato, in fondo a un lungo corridoio in penombra, contro una parete di mattoni a vista sormontata da un arco bianco quasi ricamato da decenni di mani di calce. Quella parte della casa e molto buia e, trovandoselo davanti all'improvviso, sapevo che sarebbe stata attratta dal disegno come una falena dalla fiamma. Non mi sbaglio. E — ne sono quasi certo — nel vederlo emette addirittura un piccolo gemito di piacere. Si avvicina al disegno e leggo nei suoi occhi che e perduta. Il mio lavoro e fatto. Indietreggio e la lascio sola. Non si muove per dieci minuti. Poi china la testa e si gira. Quando siamo sulla porta di casa vedo che le brillano gli occhi. «La ringrazio tanto», dice. «Spero che mi fara l'onore di essere mio ospite a cena una di queste sere.» Mi porge la mano. Mi inchino e gliela bacio.

6 novembre 1946, Tangeri

Il giorno comincia con un invito a cena da parte di B.H. Un'ora dopo arriva Charles Brown. Organizzo un te alla menta e fumo una sigaretta. La conversazione e lunga e tortuosa e comprende domande relative al mio passato su cui mento spudoratamente, improvvisando, sicuro che sia meglio cosi, che in quel modo nessuno mi conoscera mai davvero, compreso possibilmente io stesso, e conservero quell'aura di mistero che diventera il segno distintivo della mia opera. Mi perdo in questo pensiero: anche quando io me ne saro andato e si faranno studi eruditi e laboriosi per arrivare in fondo a Francisco Falcon (ecco, ci siamo, la trasformazione e gia avvenuta, l'ho scritto senza pensare, Francisco Gonzalez e scomparso), quando gli strati della cipolla saranno stati sbucciati l'uno dopo l'altro per arrivare al cuore della verita, ci si accorgera, come sempre avviene con una cipolla e come sanno tutti, che la verita non e nulla. Quando l'ultima buccia sara stata tolta non si trovera niente. Nessun messaggio. Niente. Io non sono niente. Noi non siamo niente. Rendermi conto di questo mi da una forza enorme, sperimento un immenso slancio di liberta immorale. Per me non esistono regole. Ritorno a C.B. con un soprassalto. Mi sta chiedendo se io sia disposto a portare il disegno con me per mostrarlo agli altri ospiti. E una cosa che mi indebolirebbe psicologicamente, percio rifiuto di nuovo. Ci dirigiamo alla porta e lui dice: «Si rende conto che la signora Hutton sarebbe disposta a spendere una grossa somma per il suo lavoro?»

«Nessuno puo avere dubbi sui mezzi di cui dispone la proprietaria del palazzo di Sidi Hosni», dico.

Riserva il dardo finale all'ultimo momento.

«Cinquecento dollari», dice e si allontana lungo la stretta via, svolta a sinistra e risale verso la casbah.

Faccio appello a tutto il mio controllo per non richiamarlo.

11 novembre 1946, Tangeri

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