45

Non capii cosa avesse voluto dire finche non fummo a Manneran. Sbarcammo a Hilminor, pagammo il capitano Khrish, passammo attraverso un minimo di formalita d’ispezione (com’erano fiduciosi gli ufficiali di porto, non molto tempo fa!) e ci avviammo verso la capitale col nostro carro da terra. Entrando nella citta di Manneran dalla via Sumar, attraversammo una zona affollata di mercati e di negozi all’aperto, dove vidi migliaia di Manneriani che si davano un gran daffare, mercanteggiavano e litigavano. Li vidi contrattare ferocemente e tirar fuori i moduli dei contratti per concludere gli affari. Vidi le loro facce tirate, guardinghe, gli occhi freddi e senza amore. E pensai alla droga che portavo con me e mi dissi: Se soltanto potessi cambiare le loro anime gelate. Mi vedevo andare tra loro, accostare gente che non conoscevo, tirare da parte questo o quello, sussurrare dolcemente: — Io sono un principe di Salla e un alto funzionario del Tribunale del Porto, ho rinnegato tutte queste cose vuote per portare la felicita all’uomo, e vorrei mostrarvi come si puo trovare la gioia col rivelarsi agli altri. Abbiate fiducia in me: io vi amo. — Senza dubbio qualcuno sarebbe scappato via non appena avessi iniziato a parlare, spaventato da quella oscenita iniziale: «Io sono». Altri forse mi avrebbero ascoltato fino in fondo, ma poi mi avrebbero sputato in faccia e mi avrebbero chiamato pazzo, altri ancora avrebbero chiesto l’intervento della polizia. Ma forse ce ne sarebbero stati alcuni, pochi, che mi avrebbero ascoltato, sarebbero stati tentati e sarebbero venuti con me in una stanza quieta delle banchine, dove avremmo potuto dividerci la droga sumariana. Ad una ad una avrei aperto anime, finche non ci fossero a Manneran dieci come me, venti, cento, una societa segreta di «esibizionisti» che si riconoscerebbero l’un l’altro dal calore e dall’amore dei loro occhi, che girerebbero per la citta a dire senza paura «io» e «me» ai loro compagni iniziati, che rinuncerebbero non solo alla grammatica di cortesia ma anche al velenoso rifiuto dell’amore di se che tale grammatica implica. Ed io avrei ingaggiato di nuovo il capitano Khrish per un altro viaggio a Sumara Borthan, sarei tornato carico di pacchetti di polvere bianca e avrei continuato la mia opera in Manneran, io e quelli come me, e saremmo andati da questo e da quello, sorridenti, radiosi, a mormorare: — Vorrei mostrarvi come trovare la gioia col rivelarsi agli altri. Abbiate fiducia in me: io vi amo.

In questa mia visione non c’era posto per Schweiz. Non era il suo pianeta, non aveva nessun motivo per volerlo trasformare. Tutto quel che l’interessava era la sua esigenza spirituale, la sua fame di arrivare alla percezione della divinita. C’era gia riuscito in parte e poteva portare avanti la cosa da se, per conto suo. Schweiz non aveva bisogno di girare di soppiatto per la citta seducendo sconosciuti. Questa era la ragione per cui aveva dato a me la maggior parte del bottino sumariano: io ero l’evangelista, il nuovo profeta, il messia dell’anima rivelata, e Schweiz lo aveva capito prima di me. Fino ad allora era stato lui il capo: si era guadagnato la mia confidenza, mi aveva spinto a provare la droga, mi aveva attirato a Sumara Borthan, si era servito del mio potere al Tribunale del Porto, mi aveva tenuto al suo fianco per avere compagnia, sicurezza e protezione. Io ero sempre rimasto in ombra; ma ora avrebbe smesso di eclissarmi. Da solo, armato dei miei piccoli pacchetti, mi sarei lanciato in una missione che avrebbe cambiato il mondo.

Era un ruolo che interpretavo volentieri. Per tutta la vita ero stato spinto nell’ombra da qualcuno. Malgrado la mia forza fisica e la mia abilita mentale ero arrivato a considerarmi una persona di seconda scelta. Forse era un fatto normale, dato che ero il secondo figlio di un Eptarca. Prima c’era stato mio padre, che non avrei mai potuto sperare di uguagliare in autorita, agilita e forza; poi Stirron, la cui regalita mi aveva portato soltanto l’esilio; poi il mio padrone nel campo dei taglialegna; poi Segvord Helalam; poi Schweiz. Tutti uomini decisi; di prestigio, che sapevano qual era il loro posto nel mondo, e sapevano mantenerselo, mentre io vagavo confuso. Adesso, a mezz’eta, potevo finalmente farmi valere. Avevo una missione, avevo uno scopo. Le filatrici della divina volonta mi avevano portato sin la, avevano fatto di me quel che ero, mi avevano preparato alla mia missione. Accettavo con gioia il loro comando.

46

C’era una ragazza che mantenevo per mio piacere in una stanza della parte Sud di Manneran, in un incrocio di vecchie strade dietro alla Cappella di Pietra. Diceva di essere una bastarda del duca di Kongoroi, concepita durante una visita di Stato del duca a Manneran, nei giorni del regno di mio padre. Forse la sua storia era vera. Certamente lei ci credeva. Avevo l’abitudine di andar da lei per un’ora di piacere due o tre volte ogni periodo lunare, quando mi sentivo soffocare dalla monotonia della mia vita, quando sentivo la mano della noia stringermi alla gola. Era semplice ma appassionata: calda, disponibile, senza pretese. Non le nascosi la mia identita, ma non le diedi nulla di me stesso, ne d’altra parte lei se lo aspettava; parlavamo pochissimo e non c’era certo amore, tra noi. In cambio del prezzo del suo alloggio mi lasciava di tanto in tanto usare il suo corpo. La transazione non era piu complicata di cosi: un contatto di epidermidi, uno starnuto dei lombi. Fu la prima cui diedi la droga. La mescolai con del vino dorato. — Berremo questo — dissi, e quando mi chiese perche, risposi: — Ci avvicinera di piu l’uno all’altra. — Chiese senza troppa curiosita, che effetto ci avrebbe fatto. — Rivelera le nostre anime e rendera le mura trasparenti — spiegai. Non protesto, non parlo del Comandamento, non tiro in ballo la privacy, non fece prediche sull’indegnita del rivelare la propria anima. Fece quel che le dicevo, convinta che non le avrei fatto del male. Prendemmo la dose e poi ci sdraiammo nudi sul suo divano aspettando che cominciassero gli effetti della droga. Accarezzai le sue cosce fresche, le baciai i capezzoli, le mordicchiai scherzosamente i lobi delle orecchie. Ben presto le strane sensazioni incominciarono, il ronzio, il frusciare dell’aria, cominciammo ad individuare i battiti del cuore e le pulsazioni dell’altro. — Oh! — fece, — oh, ci si sente cosi strani! — Ma non si spavento. Le nostre anime fluttuarono e si fusero nella chiara luce bianca che veniva dal Centro di Tutte le Cose. E io scoprii cosa si prova ad avere soltanto una fessura tra le cosce, e imparai come si scuotono le spalle, e si hanno seni pesanti che sbattono insieme, sentii le uova pulsare impazienti nelle mie ovaie. All’apice del viaggio, unimmo i nostri corpi. Sentii la mia verga scivolare nella mia caverna. Sentii me stesso muovermi contro me stesso, sentii la lenta succhiante oceanica marea dell’estasi levarsi dal mio scuro, caldo, umido centro intimo, sentii il caldo pungente solletichio dell’estasi imminente danzare sul mio organo, sentii lo scudo duro e peloso del mio petto schiacciarsi contro le tenere rotondita del mio seno, sentii labbra sulle mie labbra, lingua sulla mia lingua, l’anima sulla mia anima. L’unione dei nostri corpi duro delle ore, cosi mi parve, per lo meno. E per tutto quel tempo la mia anima rimase aperta per lei e lei poteva vedere tutto quel che voleva, la mia fanciullezza a Salla, la mia fuga a Glin, il mio matrimonio, l’amore che portavo alla mia sorella di legame, la mia debolezza, le mie incoerenze. Io guardai dentro di lei e vidi la sua dolcezza, la sua leggerezza, il sangue della prima mestruazione sulle sue cosce, il sangue di altre mestruazioni, Kinnall Darival quale lei lo aveva dentro di se, vaghi e informi rudimenti del Comandamento e ancora tutto quel che formava la sua anima. Poi fummo trascinati via dall’uragano dei nostri sensi. Sentii il suo orgasmo e il mio, il mio e il mio, il suo e il suo, la doppia e unica colonna di frenesia, lo spasmo e l’emissione, lo spingere e lo spingere, il salire e il discendere. Giacemmo sudati, appiccicaticci ed esausti, mentre la droga ancora palpitava nelle nostre menti estenuate. Aprii gli occhi e vidi i suoi, vitrei, con le pupille dilatate. Mi rivolse un sorriso strano. — Io — io — io — io — io — disse. — Io! — Era stupefatta, stordita. — IO! — Io! — Io!

Piantai un bacio tra i suoi seni e sentii lo sfiorare delle mie stesse labbra. — Io ti amo — dissi.

47

C’era al Tribunale del Porto un impiegato che mi era entrato in simpatia, un certo Ulman, che aveva meta dei miei anni ed era molto chiaramente un uomo di grandi promesse. Egli conosceva benissimo il mio potere e le mie ascendenze, ma non erano questi i motivi per cui mi era devoto: il rispetto che mi portava si fondava esclusivamente sulla mia capacita di valutare e di affrontare i problemi del Tribunale. Un giorno lo trattenni fino a tardi e lo chiamai nel mio ufficio quando tutti gli altri se ne furono andati. — C’e una droga di Sumara Borthan — dissi, — che permette alle anime di entrare in comunicazione con le altre. — Egli sorrise e disse che si, ne aveva

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