con un po’ di scena, sgusciando via per andarmi a versare un po’ di rum.

Una ragazza mi si accosta al tavolo dei liquori. Una delle studentesse di Guermantes; non ha piu di vent’anni. Capelli neri grossolani che cascano giu a riccioli: un naso rincagnato; occhi selvaggi svegli; labbra carnose. Non proprio bella ma in un certo senso interessante. Evidentemente anch’io le interesso, perche mi fa un ampio sorriso e dice: — Ti piacerebbe tornare a casa con me?

— Sono appena arrivato.

— Piu tardi. Piu tardi. Non c’e fretta. A occhio dovresti essere uno spasso quando scopi.

— Dici la stessa cosa a tutti quelli che incontri?

— Non ho incontrato nessuno — puntualizza. — E poi no, non lo dico a tutti. Anche se l’ho detto a un mucchio di gente. Che c’e di sbagliato? Di questi tempi le ragazze possono ben prendere l’iniziativa. D’altra parte, e un anno bisestile. Sei poeta?

— Non proprio.

— Lo sembri. Scommetto che sei sensibile e che soffri molto. — La mia solita, ebete fantasia, che si realizza davanti ai miei occhi. I suoi occhi sono cerchiati di rosso. E imbottita di droga. Un odore penetrante di sudore sale dalla sua maglietta nera. Le sue gambe sono troppo corte rispetto al torace, le labbra troppo larghe, i suoi seni troppo pesanti. Probabilmente ha la blenorragia. Sta scaricandomela? Scommetto che sei sensibile e che soffri molto. Sei un poeta? Tento di esplorarla, ma a vuoto; la stanchezza sta velando la mia mente, e le urla collettive di quella folla ammassata, i partecipanti al party, adesso, stanno soffocando ogni emissione individuale. — Come ti chiami? — chiede lei.

— David Selig.

— Lisa Holstein. Sono senior al Barn…

— Holstein? — il nome mi fa scattare. Kitty, Kitty, Kitty! — Come hai detto? Holstein?

— Holstein, si, e risparmiami giochi di parole con le relative vacche olandesi.

— Hai una sorella che si chiama Kitty? Chaterine, suppongo. Kitty Holstein. Sui 35 anni. Una sorella, forse una cugina…

— No. Mai sentita. Qualcuna che conosci?

— Che conoscevo — rispondo. — Kitty Holstein. — Prendo il mio drink e me ne vado.

— Ehi — mi urla dietro. — Pensi forse che stessi scherzando? Mi porti a letto si o no stasera?

Un colosso nero mi affronta. L’immensa aureola africana, quella faccia da giungla terrificante. I suoi abiti, uno sprazzo di colori esplosivi. Lui, qui? Oh, Dio mio! Proprio la persona che avevo meno bisogno di vedere. Penso, con un senso di colpa, al compito finale non terminato, zoppicante, goffo, una mostruosita, che sta la sulla mia scrivania. Ma che cosa ci sta a fare lui qui? Come ha fatto Claude Guermantes a trascinare Yahya Lumumba nella sua orbita? Il ricordo nero della serata, forse. Oppure il delegato degli sport di massa, convocato qui per dimostrare la versatilita intellettuale del nostro anfitrione, il suo eclettismo. Lumumba incombe su di me, sdegnoso, mi squadra con freddezza dalla sua altezza incredibile come uno Zeus d’ebano. E abbracciato a una negra spettacolare, una dea, titanica, alta molto piu di un metro e 80, la pelle come onice tirato a lucido, gli occhi simili a fari. Una coppia stupenda. Ci fanno vergognare tutti con la loro bellezza. Finalmente, Lumumba dice: — Io ti conosco, uomo. Ti conosco, devo averti visto da qualche parte.

— Selig. David Selig.

— Mi sembra di averlo gia sentito. Dove ti ho conosciuto?

— Euripide, Sofocle ed Eschilo.

— Che c’entra il college? — E confuso. Si blocca. Poi, sorride. — Ah, si. Si, baby. Quel fottuto che fa i compiti finali. Come ti sta andando con quello, vecchio mio?

— Sta andando.

— Ce la fai per mercoledi? E mercoledi che devono consegnarlo.

— Ce la faro, Lumumba. — 'Faro del mio meglio, capo.'

— Meglio per te, ragazzo. Conto su di te.

— …Tom Nyquist…

Il nome balzo fuori all’improvviso, in modo sensazionale, dal vocio di fondo che copriva l’intera gamma sonora delle chiacchiere del party. Per un attimo resto sospeso nell’aria fumosa come una foglia morta afferrata da un’indolente brezza d’ottobre. Chi nominava Tom Nyquist proprio in quel momento? Chi aveva pronunciato il suo nome? Una piacevole voce baritonale, a non piu di una decina di passi da me. Guardai alla ricerca dei possibili proprietari di quella voce. C’erano uomini da tutte le parti. Tu? Tu? Tu? Non c’era modo di parlare. Si, un modo c’era. Le parole pronunciate ad alta voce, riecheggiano nella mente di chi parla per un breve istante (anche nella mente di coloro che lo ascoltano, pero gli echi hanno una diversa tonalita). Invoco la mia abilita che se ne sta andando e, tendendomi al limite, obbligo le ventose a cercare nelle coscienze li vicine, a caccia degli echi. Uno sforzo immenso, suicida. I crani in cui entro sono solide cupole ossee attraverso le cui scarsissime fenditure lotto per conficcare le mie sonde fiacche, deboli. Pero entro. Cerco gli echi in questione. Tom Nyquist? Tom Nyquist? Chi ha pronunciato il suo nome? Lei? Lei? Ah. Eccolo qui. L’eco e quasi sparita, soltanto un debole cupo suono all’altra estremita di una caverna. Un uomo alto grassottello con un comico pizzetto biondo.

— Scusatemi — dico. — Non intendevo origliare, pero vi ho sentito fare il nome di un mio vecchissimo amico…

— Ah?

— …E non sono riuscito a trattenermi dal chiedervi di lui. Tom Nyquist. Lui e io, un tempo, eravamo molto intimi. Se sapete dove si trova adesso, che cosa sta facendo…

— Tom Nyquist?

— Si. Sono certo di avervi sentito fare il suo nome.

Un sorriso vacuo. — Temo che ci sia un errore. Non conosco nessuno che abbia quel nome, Jim? Fred? Potete dare una mano?

— Ma io sono sicuro di aver sentito… — L’eco. Bum nella caverna. Mi ero sbagliato? A ritmo serrato tento di buttarmi nella sua testa, per andare a caccia, nel suo archivio, di una qualche conoscenza di Nyquist. Invece non riesco a funzionare per niente, adesso. Loro stanno discutendo con convinzione. Nyquist? Nyquist? Qualcuno ha sentito parlare di un certo Nyquist? C’e qualcuno che conosce un certo Nyquist?

All’improvviso uno di loro urla: — John Leibnitz!

— Ecco — dice tutto giulivo il grassottello. — Forse e questo nome che avete sentito. Stavo parlando di John Leibnitz qualche momento fa. Un amico comune. In questo casino puo essere benissimo successo che a voi sia suonato come Nyquist.

Leibnitz Nyquist. Leibnitz. Nyquist. Bum. Bum. - Assolutamente possibile — convengo. — Non c’e dubbio che sia successo proprio cosi. Sono stato uno stupido. — John Leibnitz. — Spiacente di avervi importunato.

Guermantes dice, in punta di forchetta mentre si pavoneggia tutto, accanto a me: — Veramente, voi dovete venire a sentire le mie lezioni uno di questi giorni. Mercoledi prossimo, nel pomeriggio, comincio Rimbaud e Verlaine, la prima di sei lezioni. Fatevi vedere. Sarete al campus mercoledi, vero?

Mercoledi e il giorno in cui devo consegnare il compito finale di Yahya Lumumba sui tragici greci. Certo che ci saro, al campus. Devo esserci. Pero come fa Guermantes a saperlo? Legge, in un modo o nell’altro, nella mia testa? E se anche lui avesse questo dono? E io sono completamente spalancato per lui, lui conosce ogni cosa, il mio povero patetico segreto, la mia crescente perdita quotidiana e se ne sta la, trattandomi con condiscendenza perche io sto spegnendomi mentre lui e forte com’ero io una volta. Poi un improvviso attacco paranoico: non soltanto e vero che ha il dono ma forse e una specie di sanguisuga telepatica, che mi sta succhiando, assorbendo il potere dritto dalla mia mente per versarlo nella sua. Forse, in sordina, sta succhiandomi gia dal ’74.

Scaccio via queste inutili idiozie. — Si, penso di essere da quelle parti, mercoledi. Forse verro.

Pero non c’e alcuna probabilita che io vada ad ascoltare la lezione di Claude Guermantes su Rimbaud o Verlaine. Se lui ha il potere, che se lo metta nella pipa, e se lo fumi!

— Mi farebbe molto piacere se veniste — dice lui. Si piega verso di me. La sua androgina dolcezza, tipicamente mediterranea, gli permette, accidentalmente, di rompere il codice americano, ratificato, che vuole

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