— Su, continua — mormoro. — Dimmi cosa sono. Spiegami il perche.

Vargas spiego: — Ci sono varie possibilita. Tutte di ordine speculativo, tutte supposizioni, naturalmente. La prima, la piu ovvia, e che i segnalatori di NGC 7293 siano giunti dopo l’esplosione, quando tutto era ritornato tranquillo. Negli ultimi diecimila anni, tanto per fare una cifra. Colonizzatori provenienti da qualche lontano punto della Galassia, esploratori, profughi, esuli… insomma una migrazione recente.

— E le radiazioni? — obietto Krug. — Anche dopo che tutto era ritornato tranquillo, come tu dici, quel sole assassino continuava a radiare nell’ultravioletto.

— E chiaro che quegli esseri non ne risentono. A noi, per i nostri processi vitali, occorre la luce del Sole: si puo benissimo concepire una razza che abbia bisogno di luce a frequenza spettrale piu alta.

Krug scosse il capo.

— Tu parla di quella razza, allora, e io faro la parte dell’avvocato del diavolo. Impiega le radiazioni ultraviolette, tu affermi. E cosa ne dici degli effetti genetici? Che tipo di civilta stabile si puo costituire, con un tasso di mutazione cosi elevato?

— Una razza adattata ad alti livelli di radiazione avra certo una struttura genetica meno vulnerabile della nostra. Potra assorbire ogni tipo di particelle senza troppe mutazioni genetiche.

— Si. E forse no. — Krug rimase in silenzio per un istante, poi disse: — Benissimo, sono venuti da qualche altra parte e si sono stabiliti nella tua nebulosa planetaria quando e passato il pericolo. E allora perche non abbiamo ricevuto i segnali anche da altre stelle? Dov’e il loro sistema d’origine? Profughi, coloni, si, ma da dove?

— Forse il loro sistema d’origine e talmente lontano che i segnali ci arriveranno solo tra migliaia di anni — azzardo Vargas. — O forse non manda segnali. O anche…

— Tu hai tante risposte… — brontolo Krug. — Ma l’idea non mi piace lo stesso.

— E allora passiamo alla seconda possibilita — disse Vargas. — I segnalatori sono originari di NGC 7293.

— E come fanno? L’esplosione…

— Forse l’esplosione non li ha danneggiati affatto. Potrebbe trattarsi di una razza che si nutre di radiazioni: una razza per cui la mutazione genetica e il modo di vivere. Amico mio, qui stiamo parlando di razze extraterrestri, diversissime dalla nostra. E se sono davvero diverse, noi non possiamo neppure immaginarci i loro parametri… Su, tienimi dietro nelle supposizioni. Abbiamo un pianeta di una stella azzurra; un pianeta lontano dal proprio sole, ma che riceve ugualmente una dose massiccia di radiazioni, fortissime. Il loro mare e un brodo di coltura, pieno di composti chimici in costante ebollizione. Un brodo di mutazioni biologiche. Un milione d’anni dopo che la crosta del pianeta si e raffreddata, ecco nascere la vita. Tutto succede molto in fretta su quel pianeta. Un altro milione di anni e si arriva agli organismi complessi, multicellulari. Al terzo milione siamo gia al loro equivalente dei mammiferi. E al quarto arriviamo a una civilta di portata galattica. La mutazione; la mutazione feroce, interminabile.

— Vorrei poterti credere — borbotto Krug, tetro. — Lo vorrei davvero. Ma non ci riesco.

— Divoratori di radiazioni — continuo Vargas. — Intelligenti, sommamente adattabili, convinti della necessita… perfino della desiderabilita… di un continuo, violento rimescolamento genetico. La loro stella si espande, scoppia; benissimo, loro si adattano all’aumento di radiazioni; trovano il modo di proteggersi. E poi si trovano a vivere all’interno di una nebulosa planetaria, circondati da un cielo luminescente. Scoprono l’esistenza del resto della Galassia. Ci inviano messaggi. Non ti pare?

Krug, tormentato, allargo le braccia verso Vargas. — Come vorrei poterlo credere!

— E allora credici. Io ci credo.

— Ma si tratta solo di una teoria. Una teoria campata in aria!

— Eppure si accorda benissimo con i dati che possediamo — lo rincuoro Vargas. — Non hai mai sentito quel vecchio detto: “Se non e vero, e ben trovato”? Come ipotesi di lavoro, puo esserci utile finche non ne avremo una migliore. Spiega i fatti molto meglio di quanto non possa farlo l’altra, e cioe che quei segnali complessi, ripetuti, su varie frequenze, abbiano origine spontanea.

Volgendo le spalle a Vargas, Krug calo un colpo violento sull’interruttore del proiettore, come se non potesse piu soffrire l’immagine sulla cupola, come se si fosse sentito ferire la pelle dalle tumultuose radiazioni di quel sole estraneo, mortale. Nei suoi sogni l’immagine era stata ben diversa. Aveva pensato al pianeta di un sole giallo, in qualche punto del cielo a ottanta, novant’anni luce dalla Terra: un sole gentile e carezzevole, simile a quello sotto cui era nato lui. Aveva sognato un mondo di laghi e di fiumi e di grandi distese erbose, di aria profumata dal vaghissimo sentore di ozono, di alberi dalle foglie rosse e di insetti verdi e lucidi, di creature snelle ed eleganti dalle spalle sottili, con molte dita alle mani. Creature dalla voce saggia e pacata, che discorrevano amabilmente mentre passeggiavano per vallate e boschetti di quel paradiso, che sondavano i misteri del cosmo tessendo speculazioni sull’esistenza di altre civilta, e che infine mandavano all’universo il loro messaggio. Li aveva visti spalancare le braccia ai primi visitatori della Terra ed esclamare: Benvenuti, fratelli, benvenuti; sapevamo che dovevate esserci anche voi. E ora tutta quella dolce visione era calpestata, distrutta. Con l’occhio della mente, ora Krug si raffigurava un infame sole azzurro che lanciava contro il vuoto le sue fiammate demoniache; scorgeva un pianeta calcinato e rovente, dove mostri squamosi e corazzati strisciavano in paludi d’argento vivo, sotto un ostile cielo incandescente. Una masnada di orrori, attruppata vicino a una macchina d’incubo, che mandava al di la del vuoto dello spazio un messaggio incomprensibile. E sarebbero nostri fratelli? Che gusto ci puo essere, si chiedeva tetramente Krug.

— Ormai — confesso deluso — con che cuore potremmo recarci da loro? Con che cuore potremmo abbracciarli? Sai, Vargas, ho una nave quasi pronta: una nave stellare, capace di trasportare un dormiente per centinaia d’anni. Ma non oso piu mandarla in un posto simile.

— Mi stupisce vederti reagire cosi. Non mi aspettavo una simile angoscia da parte tua.

— E io non mi aspettavo una stella come quella.

— Perche, preferivi sentirti dire che i segnali erano solo degli impulsi naturali?

— No. No.

— E allora accetta con gioia questi nostri strani fratelli: dimentica le differenze che li rendono strani ai nostri occhi e pensa solo alla fratellanza che ci accomuna.

Le parole di Vargas fecero presa: gli diedero forza. L’astronomo aveva ragione. Per quanto diversi fossero quegli esseri, per quanto stravagante apparisse il loro mondo (sempre che l’ipotesi di Vargas corrispondesse al vero) si trattava di creature civili, scientifiche, aperte alle altre forme di vita intelligente. Nostri fratelli. Se domani lo spazio si dovesse ripiegare su se stesso, inghiottendo il Sole, la Terra e i pianeti vicini e scaraventandoli nell’oblio, l’intelligenza non scomparirebbe dalla faccia del cosmo, perche ci sarebbero loro.

— Si — disse infine Krug — li accetto. Con gioia. Quando la torre sara terminata inviero il mio saluto.

Erano trascorsi due secoli e mezzo da quando l’uomo si era svincolato per la prima volta dal pianeta natale. In un singolo, grande, dinamico impulso, la sete degli spazi aveva portato gli esploratori dalla Luna a Plutone, al bordo del sistema solare, senza tuttavia mai incontrare vita intelligente. Licheni, batteri, creature striscianti dei phylum piu bassi: questi si, ma nulla di piu evoluto. Solo la delusione aveva arriso agli archeologi che fantasticavano di ricostruire le fasi della civilta marziana da manufatti trovati nel deserto. Quei manufatti non c’erano mai stati. E quando erano partite anche le sonde stellari per viaggi di decine d’anni verso i sistemi solari piu vicini, esse erano poi ritornate con… niente. Nella sfera di quindici anni luce dal Sole, cosi testimoniavano le prove raccolte, non era mai esistita forma di vita superiore a quella dei proteinoidi del Centauro, che tutt’al piu potevano fare invidia alle amebe.

Krug era un giovanotto, all’epoca in cui erano ritornate le prime sonde. Gli era spiaciuto vedere come molti, sulla Terra, avessero preso a filosofeggiare sull’insuccesso della ricerca di vita intelligente sugli astri piu prossimi. Che cosa dicevano, quegli apostoli del nuovo geocentrismo?

«Noi siamo gli eletti!»

«Noi siamo i figli unigeniti di Dio!»

«Solo su questo mondo, e su nessun altro, il Signore forgio il suo popolo!»

«Spetta a noi l’universo, per eredita divina!»

In quel tipo di idee, Krug ravvisava la paranoia.

Non aveva mai pensato a Dio. Ma gli sembrava che gli uomini pretendessero troppo dall’universo, quando affermavano che il miracolo dell’intelligenza aveva avuto il permesso di sorgere solo su questo piccolo pianeta di un piccolo sole. Esistevano miliardi e miliardi di soli; esisteva un’infinita di mondi. Com’era possibile che l’intelligenza non si fosse evoluta innumerevoli e innumerevoli volte in quegli infiniti mari di galassie?

E gli sembrava assurdo, megalomane il tentativo di far assurgere a dogma assoluto gli scarsi, provvisori risultati di una ricerca sulla distanza di quindici anni luce. Che davvero fosse solo, l’uomo? E chi poteva dirlo?

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