Fondamentalmente, Krug era un razionalista. Cercava di mantenere ogni cosa nella giusta proporzione. E sentiva che la continuita della salute mentale, per la razza umana, richiedeva di destarsi dal sogno di unicita, perche quel sogno, certamente, era destinato a terminare: se il risveglio fosse giunto troppo tardi, la razza umana ne avrebbe subito una mazzata insuperabile.
— Quando sara pronta la torre? — chiese Vargas.
— Tra due anni. Forse alla fine del prossimo, se avremo fortuna. Hai visto stamattina l’appoggio che do alla costruzione: stanziamenti illimitati. — Krug si aggrotto. Bruscamente, si era sentito inquieto. — Dimmi la verita. Anche tu, anche tu che hai passato tutta la vita ad ascoltare la voce delle stelle, non pensi anche tu che Krug sia un po’ pazzo?
— Niente affatto!
— E invece si. Lo pensano tutti. Mio figlio Manuel, per esempio, pensa che dovrei venire chiuso in manicomio, anche se ha paura di dirmelo. E Spaulding, qui sotto: anche lui. Tutti, tutti, anche Thor Guardiano, probabilmente, ed e proprio lui a costruirmi quell’accidenti di torre. Vorrebbero sapere cosa penso di ricavarci. Perche butto miliardi di dollari in una torre di cristallo. Anche tu, Vargas!
Il volto teso di Vargas divenne ancor piu stiracchiato. — No: nutro la massima comprensione per il tuo progetto. Questi sospetti mi fanno male. Perche, non credi che entrare in contatto con una civilta extrasolare abbia altrettanta importanza per me quanto per te?
— Certo: per te
Imbarazzato, Vargas propose: — Forse faremmo meglio a scendere. L’eccitazione…
Krug si batte la mano sul petto. — Ho appena sessant’anni. Me ne restano cento da vivere, forse duecento, chi puo dirlo? Non preoccuparti di me. Puoi confessarlo tranquillamente. Sai che e una follia, per un ignorante come me, interessarsi a tal punto di una cosa di questo genere. — Krug scrollo la testa, violentemente. — Che sia una follia lo so perfino io. Devo continuare a spiegare a me stesso i miei motivi. Vedi, mi dico, e una cosa che si deve fare. E io la faccio: questa torre. Questo saluto alle stelle. Quando ero giovane, tutti continuavano a dire: siamo soli, siamo soli, siamo soli. Ma io non ci credevo. Non potevo crederci. Poi ho fatto i miliardi, e adesso quei miliardi li spendo, per ficcare in testa a tutti la verita sull’universo. Tu hai trovato i segnali. Io mandero la risposta. Numeri nostri in cambio dei loro. E poi figure: so come farlo. Uno e zero, uno e zero, uno e zero, nero e bianco, nero e bianco: continui a mandare bit, e quelli finiscono col formare una figura. Tu devi solo annerire gli spazi numerati. Ecco, noi siamo fatti cosi. Questa e la molecola dell’acqua. Questo e il sistema solare. Questo e il no… — Krug s’interruppe, rauco e ansante, accorgendosi solo allora dell’espressione sorpresa e intimorita comparsa sul volto dell’astronomo. In tono piu sommesso, continuo: — Oh, mi spiace. Non dovrei mettermi a urlare. A volte perdo il controllo delle parole.
— No, no — sorrise Vargas — non preoccuparti. Niente di male. E la fiamma del tuo entusiasmo. Meglio qualche volta una vampata che non dare mai segno di vita…
— Sai cos’e stato? — chiese Krug. — E la nebulosa planetaria che mi hai sbattuto in faccia. Mi ha sconvolto, e ora te ne spiego la ragione. Sognavo di andare nel luogo d’origine dei segnali. Io, Krug, nella mia nave, ibernato, che viaggiavo per cento, magari duecento anni; l’ambasciatore della Terra; un viaggio che nessuno ha mai compiuto prima di me. E adesso tu mi hai descritto il mondo infernale che invia quei segnali. Cielo fluorescente. Stella di tipo O. Una fornace ultravioletta. Il mio viaggio e annullato, eh? La cosa, la sorpresa della cosa mi ha sconvolto, ma non devi preoccuparti. Mi so adattare. So assorbire bene i colpi duri. Mi spostano su un livello energetico superiore, tutto qui. — D’impulso, abbraccio come un orso le spalle di Vargas. — Grazie per i segnali che mi hai dato. Grazie per la nebulosa planetaria. Mille grazie, un milione di grazie, no, Vargas? — Fece un passo indietro. — Adesso scendiamo pure. Come va il laboratorio? Hai bisogno di fondi? Parlane a Spaulding. Lui ha carta bianca per te, sempre. Qualsiasi cifra.
Vargas lo lascio per parlare a Spaulding. Solo nel suo ufficio, Krug si senti ardere di vitalita: nella mente gli aleggiava la visione di NGC 7293. Proprio come aveva detto, ora vibrava su un livello energetico superiore; la sua stessa pelle, ora, gli sembrava un corsetto fiammante.
— Via ai qui — brontolo.
Formo le coordinate trasmat del suo ritiro in Uganda ed entro nel campo. Dopo un istante era a dodicimila chilometri di distanza, fermo sulla sua veranda d’onice, e fissava il lago verdeggiante sotto la villa. A sinistra, a poche centinaia di metri di distanza, galleggiava un quartetto d’ippopotami: si scorgevano solo le froge rosee e le larghe schiene grigie. A destra c’era la sua amante Quenelle, seduta nuda nell’acqua bassa. Krug si spoglio. Pesante come un rinoceronte, impaziente come un impala, s’avvento giu della ripa per unirsi a lei nell’acqua.
6
Due minuti bastarono a Thor per accorrere sul luogo del sinistro, ma in quel breve tempo i palanchini avevano gia sollevato il blocco caduto; il corpo delle vittime era in piena vista. Si era raccolto un capannello, tutto di beta: i gamma non avevano ne l’autorita ne lo spunto interiore per interrompere il lavoro, neppure per un incidente come quello. Vedendo giungere un alfa, i beta indietreggiarono, soffermandosi con inquietudine ai margini della scena. Erano indecisi se tornare al lavoro o se offrire aiuto all’alfa, e cosi, trovandosi in un dilemma per il quale non erano stati programmati, rimanevano li fermi, con la triste espressione androide di smarrimento sul volto.
Thor valuto la situazione con una rapida occhiata. Tre androidi (due beta e un gamma) schiacciati dal blocco di vetro. Era quasi impossibile identificare i beta; sarebbe gia stato difficile staccare i cadaveri dalla morsa del terreno ghiacciato. Il gamma accanto a loro era quasi riuscito a sfuggire alla morte, ma la fortuna non gli era bastata: solo la parte di sotto dei fianchi era intatta. Sue erano le gambe che Thor aveva visto scalciare ai margini del blocco. Nella caduta, la benna aveva travolto due altri androidi. Uno di essi (un gamma) aveva ricevuto un colpo mortale al capo e giaceva abbandonato a una decina di metri di distanza. L’altro (un beta) aveva preso un colpo quasi fatale sulla schiena, dai cavi della benna; era vivo, ma gravemente danneggiato, e doveva soffrire atrocemente.
Thor scelse quattro beta fermi a osservare e ordino di trasportare i morti al centro di controllo, per l’identificazione e l’inumazione. Altri due beta li mando a prendere una barella per il ferito. Quando si furono allontanati, si avvicino a quell’unico sopravvissuto e chino lo sguardo su di lui, fissandolo negli occhi grigi venati di giallo per il dolore.
— Puoi parlare? — gli chiese.
— Si — venne un sussurro nebbioso. — Non posso muovere tutta la parte inferiore. Ho freddo. Sto congelando dalla meta in giu. Moriro?
— Probabilmente si — disse Thor. Passo la mano sulla schiena del beta, fino a trovare il ganglio lombare, e con un colpo secco lo mise in corto circuito. La figura accartocciata a terra emise un sospiro di sollievo.
— Va meglio? — chiese l’alfa.
— Molto meglio, Alfa Guardiano.
— Dimmi il tuo nome, beta.
— Calibano Alesatore.
— Cosa facevi quand’e caduto il blocco, Calibano?
— Era la fine del turno. Sono capomanutenzione. Passavo di qui. Si sono messi tutti a gridare. Ho sentito l’aria sferzarmi quando il blocco ha toccato terra. Ho fatto un salto indietro… e mi sono trovato a terra anch’io, con la schiena spaccata. Quanto mi resta ancora, prima della morte?
— Un’ora o poco meno. Il freddo salira lentamente, fino a raggiungerti il cervello; quella sara la fine. Ma confortati: lo sguardo di Krug era su di te mentre cadevi. Krug ti proteggera. Riposerai in petto a Lui.
— Krug sia lodato — mormoro Calibano Alesatore.
I barellieri arrivavano, ma come giunsero a una cinquantina di metri di distanza risuono il gong di fine turno. Istantaneamente, ogni androide che non stesse lavorando direttamente ai blocchi prese a correre verso le cabine d’uscita. Tre file di operai cominciarono a svanire nei trasmat, verso le proprie case nei ghetti androidi dei cinque