«Scusami tanto, amorosita. Ho avuto un giornataccia. Si, lo so, lo so che hai fame.»

Calcio via le scarpe, godendosi la voluttuosa sensazione della folta moquette azzurra sotto i piedi doloranti. Diede da mangiare all’indignata gatta, cercando di farsi perdonare con una bella porzione fuori ordinanza, poi ando a sistemarsi sul divano per ripassare gli appunti in vista della conferenza stampa dell’indomani. Livia le si acciambello accanto, facendo le fusa soddisfatta. Pian piano, la testa di Andie si chino in avanti, le sue palpebre si chiusero. Ebbe un sonno inquieto, pieno di angosciosi sogni in cui mostri di Frankenstein dagli occhi d’oro la incalzavano, sospingendola verso chiese le cui porte si spalancavano per mostrare file e file di aguzzi denti sogghignanti.

Nell’intervallo fra uno spettacolo e l’altro, Melanie rimase appoggiata al bar a guardare la folla dello Star Chamber. Due uomini elegantemente abbigliati avevano l’aria di poter elargire mance generose. Vicino a loro c’era un gruppo di turisti coreani; gente che non lesinava mai le mance, e per di piu neanche stringeva troppo forte. Individuo una coppia di clienti fissi e si ripromise di tenersi alla larga dal cascatore dai capelli grigi, che tentava continuamente di strapparle via le freccette.

In due settimane di lavoro al club, Melanie aveva imparato alla svelta chi evitare e chi al contrario incoraggiare. I cascatori, in genere, andavano sul pesante; nella loro attivita doveva esserci qualcosa che li rendeva aggressivi. I testatici, invece, erano innocui. Ridacchiavano, la pizzicavano, e a volte, quando si ricordavano di dare la mancia, non erano per nulla spilorci. Scruto il lato opposto della sala. Oh, no… Seduto a un tavolino, da solo, se ne stava quel ridicolo balordo di Arnold Tamlin, con lo sguardo piu appannato del solito.

«Guarda guarda, il tuo moroso sempre all’erta», commento Gwen.

«Ma non rompere.»

Fin da quella prima sera al bar, quando era stata troppo ingenua ed inesperta per schivarne le profferte, Melanie aveva mantenuto le distanze dalla focosa testa rossa. Ma adesso era molto meno sprovveduta. Quando si svegliava in piena notte, fradicia di sudore, dagli ingarbugliati sogni in cui cercava disperatamente di sottrarsi a mani carezzanti e bocche risucchianti, si diceva che doveva avere bevuto troppo. Incubi. Erano quegli incubi che le facevano martellare il cuore. Era paura, e non desiderio. Certo.

Durante il secondo spettacolo, Melanie fece in modo di evitare i brutali brancicamenti dei cascatori dedicando ogni sua attenzione ai coreani. E costoro le misero tanti di quei gettoni sotto la cintura, che lei non oso quasi levarglisi dinanzi. Danzo con impegno, divertendosi a stuzzicare due testatici, e le riusci anche di sottrarsi alle attenzioni di quel disgustoso Tamlin. Che razza di babbeo. Concluse il numero con una piroetta e penso bene di uscire a farsi uno spinello.

L’aria notturna si andava rinfrescando, comunque il sudore si asciugo alla svelta sulla sua pelle. Washington era una citta incredibilmente afosa, in luglio, ma per lo meno la sera portava un po’ di refrigerio. Se ne resto appoggiata accanto alla porta di servizio del club, pensando alla sua famiglia. Chissa come ci sarebbero rimasti, se avessero saputo quanti soldi stava guadagnando! Melanie provo un istante di incondizionata soddisfazione. Non aveva nessun bisogno, di loro. Se la cavava benissimo da sola.

«Mi… mi scusi… Signorina Venere?.,.»

Mio Dio, no, di nuovo quel Tamlin. L’aveva seguita fuori del locale, e adesso campeggiava sulla soglia, ostruendola. Melanie indietreggio lentamente, sforzandosi di sorridere.

«Si?»

«Ecco, le volevo dire… sapesse quanto mi piace, vederla danzare!» Le si fece incontro, guardandola fisso negli occhi.

«Be’, grazie.»

«E mi chiedevo… si, se non sarebbe disposta a ballare solo per me…» Era sempre piu vicino, e tendeva le mani verso di lei.

«Oh, Arnold, che devo dirle… Il fatto e che sono davvero stanca.» Continuo a indietreggiare, cercando di aggirarlo per raggiungere la porta. Perche Dick non mandava qualcuno fuori a cercarla? Il suo intervallo era finito.

«Danza solo per me, Venere. Levita, su, e danza fra le nubi soltanto per me.» L’afferro per le spalle con stretta brutale, affondandole le dita nella carne.

«Ma Arnold, io non sono capace di levitare.» Si contorse, tentando di liberarsi. «Per favore, lasciami.»

«Ma certo che sei capace. Fallo per me, ora. Tutti i mutanti sono capaci di levitare, no?»

«Lasciami in pace, mi fai male.»

Parve che l’altro neppure la sentisse. Mentre la sospingeva, Melanie cerco di prenderlo a calci negli stinchi, ma incappo in una buca del selciato, perse l’equilibrio, capitombolo all’indietro e cadde al suolo supina, trascinandoselo addosso. Tamlin l’afferro alla gola con entrambe le mani, incominciando a stringere.

«Levita, maledetta! Dannata mutante! Schifosa! Levita o ti ammazzo!»

Melanie cerco di urlare, benche sapesse che il frastuono del bar avrebbe coperto le sue grida e qualunque altro rumore esterno. Si batte disperatamente, aggrappandosi alle mani di lui mentre il ruggito che le esplodeva nelle orecchie diveniva piu forte. Sempre piu forte. La stretta di Tamlin era troppo tenace, per lei. Lotto, boccheggiando, per riuscire a respirare, mentre lampi colorati le pulsavano sotto le palpebre serrate. Poi i colori incominciarono a sbiadire. Respirare le parve uno sforzo insostenibile. E desidero lasciarsi andare. Ma c’era qualcosa che la tratteneva.

«Signorina? Si sente bene?»

Qualcuno la stava scuotendo. Melanie riapri gli occhi. Un giovane dai lunghi capelli castani, incarnato olivastro, intensi occhi color nocciola, era chino su di lei, e la fissava preoccupato. Lentamente, guardinga, Melanie si tiro su a sedere.

«Dov’e?»

«Se l’e filata quando l’ho colpito.»

«Dio mio», balbetto Melanie tastandosi la gola. «Credo che lei mi abbia salvato la vita.»

«Be’, mica potevo star li a guardare intanto che quello la strozzava.» L’aiuto a rimettersi in piedi, sorreggendola attorno alle spalle con un braccio vigoroso e delicato a un tempo, e Melanie, piena di sollievo e gratitudine, accetto volentieri quel sostegno premuroso. L’aveva riconosciuto per uno degli uomini d’affari notati in sala.

«Come si sente? Vuole che la porti da un dottore?»

Lei scosse la testa. «No no, ora sto bene.»

«Allora mi permetta di accompagnarla a casa. Il suo aggressore potrebbe essere appostato qui nei pressi, potrebbe seguirla.»

«Dice sul serio?»

«Tutto e possibile, con un pazzo come quello.»

«Ma lei chi e?»

«Mi chiamo Benjamin. Benjamin Cariddi. Ben.»

Gli strinse la mano, sentendosi un po’ ridicola. «Io sono Melanie.»

«In effetti avevo qualche dubbio, su Venere», le sorrise di traverso.

Lei ricambio il sorriso. «Dammi solo cinque minuti… giusto il tempo di cambiarmi, e di avvertire che per stasera ho chiuso.»

«Ci vediamo all’ingresso principale.»

Lo trovo ad attenderla dentro un lucido, affusolato libratore color notte. La tappezzeria pareva cuoio grigio. Probabilmente una buona imitazione, penso Melanie.

«Fame?» le domando.

«Si.»

«Diciamo hamburger?»

«Autentici? Magari.»

«Allora conosco un posticino favoloso.» Svolto per una via trasversale dirigendosi verso l’ingresso dell’autostrada, digito un codice sul cruscotto, si rilasso contro lo schienale.

Melanie sgrano tanto d’occhi sulla plancia. «Completamente roboguidato?»

«Piu o meno.»

«Ma non sono terribilmente cari, questi libratori?»

Ben le sorrise. «Si capisce.»

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