— Di solito.

Duefiori sedette sul lettuccio e cerco di riflettere. Compito difficile, perche aveva la mente tutta presa dai draghi.

Dragoni!

Sin da quando aveva due anni era stato affascinato dalle figure di quei fieri animali nel Libro di Tavole dell’Ottarino. Sua sorella gli aveva detto che in realta non esistevano e ricordava com’era stato amaramente deluso. Se il mondo non conteneva quelle belle creature, voleva dire che era un mondo assai imperfetto, aveva deciso. Piu tardi, aveva fatto il suo apprendistato con Ninereeds il Mastrocontabile, che nel suo grigiore era tutto cio che i draghi non erano, e non c’era piu stato tempo per sognare.

Pero in questi draghi qualcosa non andava: erano troppo piccoli e lustri, paragonati a quelli che lui vedeva con l’occhio della mente. I draghi avrebbero dovuto essere grossi e verdi e muniti di artigli e esotici e sprizzanti fiamme… grossi e verdi con lunghe acuminate…

Qualcosa si mosse nell’angolo piu lontano e buio del torrione. Svani quando lui giro la testa, ma gli era parso di udire un rumore lievissimo come di artigli che grattassero la pietra.

— Hrun? — chiamo.

Dall’altro giaciglio venne un ronfo.

Duefiori si sposto nell’angolo e tasto con precauzione le pietre in cerca di un pannello segreto. In quel momento la porta si spalanco e sbatte contro il muro. Una mezza dozzina di guardie si precipitarono dentro, si disposero ad ala e piegarono un ginocchio, con le armi puntate esclusivamente su Hrun. Ripensandoci piu tardi, Duefiori se ne sentiva offeso.

Hrun russava.

Una donna entro nella cella a grandi passi. Non molte donne sono capaci di farlo in maniera convincente, ma lei ci riusci. Diede una rapida occhiata a Duefiori, come si guarda un mobile, poi fisso l’uomo steso sul letto.

La donna indossava la stessa bardatura dei cavalieri, ma nel suo caso molto piu ridotta. Questa e la magnifica criniera di capelli rossi che le arrivava alla vita erano la sua unica concessione a quella che perfino nel mondo-disco passava per decenza. Aveva anche un’espressione pensierosa.

Con un ronfo. Hrun si giro supino e continuo a dormire.

La donna estrasse dalla cintura con precauzione, come se maneggiasse uno strumento di rara delicatezza, un sottile pugnale nero, e lo abbasso.

Prima che la lama fosse a meta del suo arco, la mano destra di Hrun si mosse cosi rapida che sembro viaggiare tra due punti nello spazio senza nemmeno spostarsi nell’aria, e si chiuse di scatto sul polso della donna. L’altra mano tastava febbrilmente in cerca di una spada che non c’era…

Hrun si sveglio.

— Gngh? — e guardo la donna con cipiglio perplesso. Poi scorse gli arcieri.

— Lasciami andare — disse la donna. La sua voce era calma, tranquilla, cristallina. Hrun apri lentamente il pugno.

Lei indietreggio. Si massaggiava il polso e fissava Hrun come un gatto fissa la tana del topo.

— Cosi — disse alla fine — hai superato la tua prima prova. Come ti chiami, barbaro?

— Chi chiami barbaro? — ringhio Hrun.

— E cio che voglio sapere.

Hrun conto lentamente gli arcieri e i muscoli delle sue spalle si rilassarono. — Io sono Hrun di Chimeria. E tu?

— Liessa la Signora dei draghi.

— Sei tu che domini in questo posto?

— Questo e da vedere. Hai l’aria di un mercenario, Hrun di Chimeria. Potrei servirmi di te, se superi le prove, naturalmente. Ce ne sono tre. Hai superato la prima.

— Come sono le altre… — Hrun s’interruppe; le sue labbra si muovevano senza che ne uscisse alcun suono. Infine azzardo: — …due?

— Pericolose.

— E la mercede?

— Sostanziosa.

— Scusatemi — disse Duefiori.

— E se non supero queste prove? — prosegui Hrun, ignorandolo Tra Hrun e Liessa l’aria crepitava con piccole esplosioni di carisma mentre si fissavano.

— Se avessi fallito la prima, adesso saresti morto. E la penalita da pagare.

— Uhm, sentite — comincio Duefiori. Liessa gli diede un’occhiata e sembro notarlo per la prima volta.

— Portatelo via — disse con calma e si volto di nuovo verso Hrun. Due delle guardie si misero l’arco in spalla, afferrarono Duefiori per i gomiti, lo sollevarono da terra e uscirono al trotto.

— Ehi — disse Duefiori, mentre quelli si affrettavano per il corridoio — dove — (mentre si fermavano davanti a un’altra porta) e il mio (mentre l’aprivano) — Bagaglio? — Atterro su un mucchio di paglia. La porta si richiuse con un tonfo e il rumore dei chiavistelli che venivano tirati ne sottolineo l’eco.

Hrun, nell’altra cella, non aveva battuto ciglio. — Okay, qual e la seconda prova?

— Devi uccidere i miei due fratelli.

Hrun ci penso su. — Tutti e due allo stesso tempo o uno dopo l’altro?

— Consecutivamente o simultaneamente.

— Cosa?

— Uccidili e basta — rispose lei con voce tagliente.

— Sono bravi combattenti?

— Rinomati.

— Cosi in compenso…

— Mi sposerai e diventerai Signore del Wyrmberg.

Segui una lunga pausa. Hrun aggrotto le sopracciglia nello sforzo, insolito per lui, di riflettere.

— Avro te e questa montagna? — chiese finalmente.

— Si. — Lei lo guardo dritto negli occhi e le sue labbra fremettero. — La mercede ne vale la pena, te lo assicuro.

Hrun abbasso gli occhi sugli anelli che le ornavano le dita. Le pietre erano grandi, diamanti di un azzurro lattiginoso incredibilmente rari, dai giacimenti di argilla di Mithos. Quando riusci a staccarne lo sguardo, Liessa lo fissava furente.

— Tanto calcolatore — esclamo con voce stridente. — Hrun il Barbaro, il coraggioso che si avventurerebbe nelle fauci stesse della Morte!

Hrun alzo le spalle. — Sicuro — disse. — Per la sola ragione che cosi si potrebbero rubare i suoi denti d’oro. — Allungo un braccio, brandi il lettino di legno e lo scaglio contro gli arcieri; quindi si slancio baldamente anche lui, abbatte un uomo con un colpo e all’altro strappo via l’arma. Un momento dopo era tutto finito.

Liessa non si era mossa.

— Allora? — disse.

— Allora cosa?

— Intendi uccidermi?

— Che? Oh no. No. Per me, sai, e una specie di abitudine. Giusto per tenermi in esercizio. Allora dove sono questi fratelli? — Sogghigno.

Seduto sulla paglia, Duefiori contemplava il buio e si chiedeva da quanto tempo si trovava li. Ore, almeno. Giorni, probabilmente. Forse anni, e lui semplicemente l’aveva dimenticato.

No, pensieri del genere erano inutili. Cerco di pensare ad altro: erba, alberi, aria fresca, draghi. Draghi…

Si udi nell’oscurita un leggerissimo sfregamento. La fronte di Duefiori s’imperlo di sudore.

Insieme a lui nella cella c’era qualcosa. Qualcosa che emetteva un fruscio eppure dava l’impressione di una grandezza smisurata. Senti l’aria smuoversi. Alzo un braccio. Vi fu una leggera cascata di scintille che annunciavano la presenza di un campo magico. Duefiori desidero ardentemente che ci fosse una luce.

Una goccia di fiamma gli passo sulla testa e ando a colpire la parete opposta; le rocce riverberarono un calore da fornace e lui si trovo di fronte un dragone che occupava oltre la meta della cella.

— Ubbidisco, signore — disse una voce nella sua testa.

Al riverbero della pietra che crepitava e lanciava scintille, Duefiori vide la sua immagine riflessa in due enormi occhi verdi. Il dragone era una creatura multicolore, dotata di corna e di aculei e agile come quello presente nel suo ricordo. Un vero dragone. Le sue ali ripiegate erano cio nondimeno abbastanza larghe da sfiorare le pareti della stanza e lui giaceva in mezzo ai suoi talloni.

— Ubbidire? — disse l’ometto con voce in cui vibravano terrore e diletto.

— Naturalmente, signore.

Il chiarore svani. Duefiori punto un dito tremante verso il punto in cui ricordava esserci la porta e ordino: — Aprila!

Il drago sollevo l’enorme testa. Di nuovo emise una palla di fuoco ma questa volta, mentre i muscoli del collo gii si contraevano, il colore della fiamma passo dall’arancione al giallo, dal giallo al bianco e finalmente all’azzurro pallidissimo: a questo punto era diventata anche assai tenue e dove toccava la parete, la roccia si sgretolava; quando raggiunse la porta, il metallo esplose in una pioggia di scintille infuocate.

Sulle pareti si disegnarono guizzanti ombre nere. Per un attimo il metallo incandescente ribolli e poi la porta cadde in due pezzi nel corridoio. La fiamma si spense con una rapidita sconcertante quasi quanto la sua apparizione.

Duefiori passo con precauzione sulla porta che si andava raffreddando e scruto i! corridoio nei due sensi. Era vuoto.

Il drago lo segui. Il pesante telaio della porta gli causo qualche difficolta che lui supero con una spallata che spacco il legno e lo butto da una parte. La creatura attendeva, gli occhi fissi su Duefiori, la pelle increspata e guizzante mentre tentava di aprire le ali nello stretto corridoio.

— Come sei arrivato qui? — gli domando Duefiori.

— Mi hai chiamato tu, padrone.

— Non ricordo di averlo fatto.

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