Mio malgrado, e contro ogni buon senso, mi misi a sedere. — Sergente — dissi — non ho la piu pallida idea di quello di cui state parlando.

Lui disse: — E andata con i selvaggi, tenente. E non ha l’equipaggiamento protettivo. E mancano due ore all’ora X.

Questo si fu un colpo. — Vuoi dire che l’operazione e per questa notte? — gridai.

Lui fece una smorfia. — Per favore, abbassate la voce. Si, comincia a mezzanotte, e adesso sono le dieci.

Lo fissai. — Questa notte? — ripetei. Dov’ero stato? Come mai non l’avevo saputo? Naturalmente era un’informazione segreta, ma di sicuro ogni soldato nel campo doveva saperlo da ore.

Il sergente annui. — L’hanno anticipata perche il tempo e perfetto. — Adesso che sapevo cosa guardare, riconobbi il cappuccio di tessuto polarizzato sulle sue spalle, e la grossa cuffia che gli pendeva sotto il mento. — Il fatto e…

Un rumore in fondo alla sala. Una porta che si apriva. Una luce.

— Accidenti — impreco il sergente. — Sentite, ho da fare. Andate a cercarla, va bene tenente? C’e un indigeno che vi aspetta giu, con l’equipaggiamento protettivo per tutti e due… vi portera da lei… e … — Rumore di passi che si avvicinavano. — Mi scusi tenente — disse ansimando — devo andare.

E se ne ando.

Non appena l’infermiera ebbe fatto il suo giro e se ne fu andata, scivolai fuori dal letto, mi infilai i vestiti, uscii quatto quatto dal reparto. La testa mi martellava, e sapevo che l’ultima cosa di cui avevo bisogno era una nota per aver lasciato senza permesso l’ospedale, da aggiungere a tutte quelle che gia avevo sul mio dossier. La cosa buffa fu che non esitai un solo istante.

Non esitai neppure abbastanza per rendermi conto che era strano. Solo piu tardi mi venne in mente che c’erano state molte occasioni, nel passato, in cui qualcuno ci aveva messo lo zampino per salvarmi da qualche impiccio. Mai prima di allora avevo avuto difficolta a dimenticarmene, quando si era presentata l’occasione di ripagare i favori. L’unica cosa che pensai, fu che avevo un debito verso Gert, e che lei aveva bisogno del mio aiuto. Cosi andai… fermandomi una volta sola all’ingresso dell’ospedale per rendermi un paio di Mokie dal distributore automatico. E sono convinto che se la macchina non fosse stata proprio li, sarei anche andato senza le Mokie.

L’indigeno mi stava aspettando come annunciato, non solo con l’equipaggiamento completo per due, ma anche con asino e carretto. L’unica cosa che gli mancava, era la conoscenza dell’inglese. Ma dal momento che pareva sapere dove andare senza bisogno di istruzioni, la cosa non fu un problema.

Era una notte calda e buia, cosi buia che quasi metteva paura. Si poteva vedere il cielo! Non voglio dire il cielo diurno, o anche il cielo notturno quando le luci gli danno quella luminosita rossastra. Voglio dire le stelle. Tutti hanno sentito parlare delle stelle, ma quanti le hanno veramente viste? E ce n’erano milioni, in ogni punto del cielo, abbastanza luminose da vederci…

Abbastanza perche ci vedesse l’asino, almeno, perche non sembro avere difficolta a trovare la strada. Avevamo lasciato le strade principali, e ci dirigevamo verso le colline vicine. Fra noi e le colline c’era una valle. Ne avevo sentito parlare. Era una specie di curiosita da quelle parti, perche era fertile. Quello che rende il Gobi un gobi, ossia un deserto di sassi, e il vento e la siccita. La siccita trasforma la terra in polvere. Il vento la soffia via, finche quello che resta sono un’infinita di chilometri quadrati di pietra. Solo che qua e la, in qualche posto isolato, una valle, o il lato riparato di una collina, c’e un po’ di acqua, e questi posti trattengono la terra. Altri ufficiali mi avevano detto che quella era quasi come un vigneto italiano, con grappoli d’uva e ruscelli mormoranti. Non avevo pensato che valesse la pena di visitarla. Ne avrei progettato di vederla in quel momento, di notte, quando l’inferno stava per scatenarsi entro… gettai un’occhiata all’orologio, brillante nella notte cupa… fra circa un’ora e cinque minuti. E in effetti non la visitammo. L’indigeno prese un sentiero che passava attorno al vigneto, fermo il carro, mi fece segno di scendere e mi indico la cima di una collina.

Alla luce della stella distinsi, vagamente una costruzione, simile a una baracca, solitaria. — Devo andare lassu? — chiesi. Il selvaggio alzo le spalle e indico ancora. — Il sergente Martels e nella baracca? — Un’altra alzata di spalle. — Al diavolo — dissi, e cominciai ad arrampicarmi.

La luce delle stelle non era sufficiente per vederci, dopo tutto. Inciampai e caddi a terra una dozzina di volte, su quella specie di sentiero… quel maledetto, sporco, polveroso sentiero, cosi secco che quando scivolavo, tornavo indietro per almeno un metro o due. Mi ferii almeno due volte. La seconda volta, mentre mi rimettevo in piedi, da dietro le colline si senti una specie di colpo di tosse, whump, e un momento dopo whump… whump… whump da tutto il cerchio dell’orizzonte, e in molti punti le stelle vennero oscurate da macchie nere che si allargavano lentamente. Non c’era bisogno che qualcuno mi dicesse cos’erano: schermi aerei. L’operazione stava per cominciare.

Sentii l’odore della baracca parecchi metri prima di arrivarci. Serviva per far seccare l’uva, e mandava puzza di vino. Ma al di sopra di quel ributtante odore di frutta, c’era qualcosa di piu forte… no, non solo piu forte. Quasi spaventoso. Assomigliava vagamente a del cibo… Manzo vero forse, o Tacchino del Fattore, ma c’era qualcosa di sbagliato nell’odore. Non come se fosse andato a male. Peggio. Il mio stomaco mi stava ricordando che da un po’ di tempo gli avevo reso la vita dura; l’odore quasi lo spinse alla rivolta. Inghiottii ed entrai a tentoni nella capanna.

Dentro c’era un po’ di luce. Avevano acceso un fuoco… per vederci, mentre mangiavano razioni rubate, immaginai. Ipotesi sbagliata. Altrettanto sbagliata quanto quella secondo cui «il brutto vizio» del sergente Martels fosse quello di andare a letto con gli indigeni, o magari ubriacarsi con qualche liquore distillato clandestinamente. Quanto ero stato ingenuo! C’erano cinque o sei soldati raccolti intorno al fuoco, e sul fuoco ci stavano essiccando un animale. Peggio ancora: stavano mangiando l’animale morto. Gert Martels mi guardo a bocca spalancata, e nella mano stringeva parte di una zampa. La teneva per l’osso…

Per il mio stomaco fu troppo. Dovetti uscire.

Ce la feci appena in tempo. Quando ebbi finito di vomitare tutto quello che avevo ingoiato nelle ultime ventiquattr’ore, tirai un profondo respiro e rientrai. Erano spaventati. Mi guardavano con facce pallide nella luce del fuoco.

— Siete peggio dei selvaggi — dissi loro, con la voce che mi tremava. — Siete peggio dei Venusiani. Sergente Martels! Mettetevi questo. E voi altri abbassate la testa, tappatevi le orecchie e non aprite gli occhi per un’ora. L’operazione inizia fra dieci minuti!

Non aspettai di sentire i loro angosciosi lamenti, e neppure di vedere se Gert Martels stava facendo quello che le avevo detto. Uscii da quel buco puzzolente il piu in fretta possibile, scivolando per una decina di metri sul sentiero prima di fermarmi a mettermi la cuffia e il cappuccio. Naturalmente da quel momento non potei piu sentire niente, e meno di tutto Gert Martels che mi raggiungeva. La conversazione era impossibile. Tanto meglio. Non avevo niente da dirle m quel momento. E niente da sentire. Raggiungemmo il carro con l’indigeno in attesa, ci sistemammo sopra, e io indicai in direzione del campo. L’indigeno prese le redini…

E in quel momento comincio.

La prima fase fu di fuochi d’artificio: comunissimi fuochi d’artificio. Scoppi di stelle. Pioggia dorata. Cascate multicolori. Non erano tanto brillanti da attivare i riduttori di luce ad azione rapida dei nostri cappucci, ma abbastanza da lasciare esterrefatti, e il nostro cocchiere quasi lascio cadere le redini, fissando il cielo ad occhi spalancati. Il tutto era punteggiato da esplosioni, che si sentivano molto attutite attraverso le cuffie, ma che echeggiavano sulle colline. Il paesaggio era illuminato dai fuochi; e questo era solo l’esca. Serviva a svegliare gli indigeni e a farli uscire all’aperto.

Poi le brigate campbelliane entrarono in azione.

Non erano piu molte le esplosioni sonore, adesso, ma quelle che c’erano sembravano dei bang supersonici che avessero luogo fra le spalle e le orecchie. Incredibilmente alte. Anche attraverso la cuffia, erano dolorosamente elevate: se non fosse stato per le cuffie, meta dei soldati avrebbero sofferto di turbe uditive. Immagino che per gli indigeni fosse cosi. Seppi in seguito che in conseguenza del rumore, due ghiacciai sulle montagne si erano spaccati, e una valanga aveva travolto la popolazione di un villaggio Uygur mentre guardava il cielo a bocca spalancata. Ma il rumore era solo meta dello spettacolo. L’altra meta era la luce. Lampi accecanti. Anche attraverso i cappucci. Anche attraverso le palpebre. Non si era mai visto uno spettacolo simile. Malgrado i mezzi protettivi, sconvolgeva i sensi.

Poi, naturalmente, gli altoparlanti montati sui palloni cominciarono a diffondere il loro messaggio, e i

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