abbasso il capo, facendole capire che ammirava la sua profonda conoscenza dell'animo umano. Lei ricambio il sorriso, approvando il suo buonsenso.

Alla seconda tazza di caffe, l'umore di Charles era radicalmente cambiato. Il cibo lo aveva rigenerato. Si sentiva quasi euforico.

Augusta lo teneva d'occhio, con un'espressione di benevola malizia. «Scommetto che ora ti senti meglio.»

«Molto meglio. La tua cucina ha fatto miracoli.»

Lei fece un cenno affermativo. «E merito dell'erba scaccia-diavoli.»

«Come, scusa?»

«L'Hypericum perforatum.» Indico una delle piantine sul davanzale della finestra. «E quella con i bei fiorellini gialli. La somministravo a mia madre per curare la sua depressione. Naturalmente lei mori. Ma con te, a quanto sembra, sono stata piu fortunata.»

«Hai drogato la zuppa?»

«Oh, non molto. E tra un po' quello sciocco sorriso ti sparira dalla faccia.»

«Allora e vero. Mi hai drogato

«E ora di chiamare Henry» disse, allontanando la seggiola dal tavolo.

Il sorriso di Charles non scomparve, ma si fece un po' teso mentre la seguiva fuori dalla cucina ed entrava in una grande stanza dal soffitto basso.

Una luce tenue illuminava le stampe di Audubon appese alle pareti. Su un tavolino tondo finemente decorato c'era un gufo bianco imbalsamato, accanto al quale era posato un blocco da disegno. Sparsi nella stanza c'erano altri uccelli impagliati che lo fissavano con occhi scintillanti, i corpi immobilizzati nell'attimo cruciale prima di spiccare il volo o di attaccare.

Augusta, come Audubon, usava uccelli morti come modelli per i suoi disegni.

I mobili erano di periodi e stili diversi, ma tutti in perfette condizioni. Accanto a un armadio, due scaffali Regence contenevano volumi di ornitologia impilati in disordine. C'era un letto sistemato nella nicchia della finestra. Si sarebbe detto che, pasti a parte, la vita di Augusta avvenisse tutta li dentro.

Charles aveva appena preso posto sul divano, quando la gatta gli si accosto con fare minaccioso. Il messaggio era chiaro: Charles si era seduto dove non avrebbe dovuto. Si sposto in un angolo del divano e la gatta si acciambello sul cuscino centrale, fissandolo con silenzioso disprezzo.

Augusta stava parlando in un telefono che Charles dato agli inizi del secolo. «Ho contato dodici colpi. Batti di nuovo se ho contato bene, Henry.» Poi si rivolse a Charles. «Domani a mezzogiorno, ti sta bene?»

«Certo.» Noto una stretta scala che portava al piano di sopra.

«Bene, allora. Grazie, Henry. Vi incontrerete direttamente a Casa Shelley. La chiave piu grossa apre la porta d'ingresso mentre la piu piccola e quella della soffitta, dove ho conservato gli effetti personali di Cass.»

Charles fece un gesto della mano per indicare l'intera stanza. «Questa e una straordinaria raccolta d'antiquariato. Mi piace la tua casa.»

«Ma non hai ancora visto le altre quaranta e rotte stanze. Vuoi fare un giro?»

«Oh, si, grazie.»

La gatta non era piu sul cuscino accanto a lui, ma li stava precedendo sulla scala. Salirono e si trovarono il passaggio sbarrato dall'animale. Faceva le fusa, in attesa. Augusta soffio, proprio come un gatto. L'animale si sposto, prendendo posto dietro a Charles.

«Sta' attento a non farla uscire.» Augusta oltrepasso la porta lasciando a Charles il compito di tenere a distanza quella furia selvaggia. Lui se la cavo con un piccolo strappo ai calzoni.

Entrarono in una lunga galleria. I soffitti erano alti almeno sei metri. Augusta gli fece notare i ricchi fregi delle cornici, decorate con tralci di rose. «I fiori sono stati fatti con un impasto di stucco e muschio di Spagna.»

Lo guido in una sala ancora piu grande. Le finestre altissime andavano dal pavimento al soffitto e illuminavano la tappezzeria a brandelli e la muffa sui mobili. L'arredamento era stato rovinato dalla pioggia entrata dai vetri rotti. A un divano mancavano le gambe anteriori, mentre un prezioso tappeto orientale era ormai del tutto sfilacciato. La causa di tanta rovina non era certo la poverta; con la vendita di alcuni di quei pezzi si sarebbe potuto provvedere alla manutenzione della casa.

Entrarono nella sala da pranzo, sulle cui pareti, rovinate dalle infiltrazioni, erano appesi dipinti preziosi con cornici deformate dall'umidita.

«Perche e tutto cosi malridotto?»

«Be', ho dovuto lasciare che la casa marcisse. E una promessa che ho fatto a mio padre in punto di morte.»

Suo padre era forse morto pazzo? Non era opportuno chiederlo, e Charles tenne la domanda per se mentre ripercorrevano la strada fino alla galleria, dove altre porte si aprivano su una grande sala da ballo. La luce del tramonto lo abbaglio, poi gli occhi gli caddero nell'impiantito di marmo, completamente distrutto.

«E l'opera sconsiderata di uno dei miei cavalli» disse Augusta. «Era un animale forte, di razza Appaloosa. Eppure, queste lastre avevano sopportato di tutto prima di spaccarsi… Sai, e marmo italiano.»

Per Charles era davvero troppo. Un cavallo in casa.

Sbalordito, la segui lungo lo scalone principale, ascoltando una serie di commenti particolareggiati sull'arredamento delle singole stanze. Ovunque c'erano orologi preziosi, tutti fermi alla stessa ora, quella della morte del padre.

Con un certo disgusto, Augusta disse: «La casa e fatta con legno di cipresso. Inattaccabile dalle termiti. I muri non cadono. Anche i pavimenti, fatti di Pinus palustris, il pino della Georgia, resistono all'umidita. Ma sto facendo progressi col tetto. Ci sono dei buchi notevoli che lasciano passare la luce del giorno… e i pipistrelli. Pero, poveri animaletti, non amano la luce diretta del sole. Alcuni stanno migrando ai piani inferiori».

Charles diede un'occhiata all'ultima stanza prima di un'altra rampa di scale. Il pavimento era sporco di escrementi. Il locale doveva essere la dimora dei pipistrelli. Contro una parete c'era un letto a baldacchino riccamente intagliato. Ne aveva visto uno simile in una casa d'aste di New York. Una zanzariera sfilacciata e marcescente lo copriva in parte, confondendosi con le ragnatele. Sul materasso giaceva un pipistrello morto e mummificato.

Continuarono a salire. In soffitta noto altri pezzi d'antiquariato diventati ormai nidi di ragni.

«Aspetta qui un attimo» disse Augusta. «Voglio assicurarmi che siano tutti fuori. Negli ultimi trent'anni fra i pipistrelli ci sono stati solo pochi casi di rabbia, ma non si sa mai, e meglio essere prudenti.» Scomparve oltre una porta, e un fetore disgustoso si diffuse dallo spiraglio.

Charles si volto verso l'unica fonte di luce e di aria. Non si trattava della finestra rotonda che aveva notato arrivando. Questa permetteva una visuale del terreno sul retro della casa. Sull'ampio davanzale era appoggiato un binocolo.

Guardando in basso, alla luce del crepuscolo poteva ancora distinguere il tracciato di quello che una volta era stato un labirinto ben congegnato, costellato da aiuole semidistrutte. Il sentiero lastricato di un tempo scompariva fra i cespugli rossi, blu e arancione che fiorivano selvatici qua e la.

Gli uccelli che in gran numero popolavano il giardino, si levarono d'improvviso in volo dagli arbusti dove erano nascosti, creando un'onda variopinta fra la vegetazione. Charles sollevo il binocolo e lo regolo sugli alberi e sui cespugli. Qua e la spuntavano i piccoli recipienti colmi di semi che Augusta aveva fissato agli alberi.

Lei era tornata e gli stava accanto, mentre gli uccelli continuavano a volare e a cinguettare.

«Complimenti, Augusta. E il giardino piu bello che abbia mai visto.»

«Lascia che ti mostri il panorama dall'altro lato, finche c'e ancora un po' di luce. Tappati il naso, passando dalla porta.»

Fece come gli era stato suggerito, ma la puzza di escrementi e urina era cosi forte che gli lacrimarono gli occhi. Sentiva lo scricchiolio degli insetti sotto le suole delle scarpe. Mentre Augusta lo guidava facendo luce con una torcia, Charles cercava di evitare le deiezioni sparse sul pavimento.

Non tutti i pipistrelli erano volati via al tramonto. Un paio di occhietti brillavano per la luce riflessa della pila elettrica. Superato un arco al centro della soffitta, un soffio di aria fresca attenuo la puzza. In alto, fra le travi del tetto, si apriva un buco da cui filtrava la luce. Fra due assi rimaste esposte alle intemperie cresceva una pianta di Polypodium: la felce della resurrezione.

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