«Perche?»
«Tuo padre riteneva che Raul Jimenez non avesse il diritto di modificare il corso della vita del prossimo. Ricordo la mia obiezione: se era per il meglio, che importava? Lui aveva fatto fortuna laggiu, era diventato famoso… ma non voleva ascoltarmi, girava infuriato per tutta la casa gridando: 'Mi ha rovinato! Quel cabron mi ha rovinato!' E ti giuro, Javier, che non riesco ancora a capire di che rovina stesse parlando, visto quello che era riuscito a fare.
«Era anche infuriato perche Raul glielo aveva detto. Non capiva assolutamente perche lo avesse fatto. Poi scopri quello che era successo alla sua famiglia: la moglie si era suicidata, il bambino era morto, la figlia era finita in un istituto per malati di mente e il figlio maggiore aveva rotto i rapporti con lui. Un disastro totale, e allora tuo padre capi che a quel punto della sua vita l'ultima cosa che Raul Jimenez voleva era un amico. Al contrario, voleva una nuova vita… una vita senza Francisco Falcon.»
«Prima ha detto che mio padre aveva risolto il suo problema di solitudine.»
«Mi aveva assicurato che non desiderava avere amici, ma anelava a una compagnia.»
«E Manuela?» domando Javier. «Manuela non andava a trovarlo?»
«Si, ma non gli era mai piaciuta molto, Manuela. Lei veniva a trovarlo qualche ora la settimana, ma non era questo che tuo padre voleva. Aveva bisogno di avere qualcuno che riempisse il vuoto della sua casa, qualcuno giovane e senza complicazioni, che guardasse avanti, che fosse sempre inesorabilmente allegro. E aveva fatto un accordo con l'universita qui e a Madrid, per avere uno studente in casa per un mese alla volta. Per lui aveva funzionato. Io non lo avrei sopportato.»
«Non mi ha mai detto che si sentiva cosi solo.»
«Forse con te non voleva ammetterlo», disse El Zurdo. «Forse non voleva modificare il corso della tua vita.»
Era quasi buio quando Javier torno a casa compiendo una lunga deviazione. Entrando, inciampo in due pacchetti sul pavimento; entrambi erano stati spinti dentro l'apertura dove il postino infilava le lettere e nessuno dei due aveva l'indirizzo, ma solo i numeri 1 e 2 scritti sull'involucro.
Li porto nel suo studio, dove teneva un paio di guanti di lattice, apri il primo pacchetto e tiro fuori una busta sulla quale era scritto: «Lezione di vista n. 4». All'interno il cartoncino recava le parole: «La muerte tragica del genio».
Nel pacchetto c'era qualcosa d'altro, qualcosa di piu pesante. Falcon distese un foglio di carta sulla scrivania e vi depose cio che, a prima vista, gli era sembrato un pezzo di vetro ma che risulto essere la scheggia di uno specchio. La giro con la punta di una biro. Scritte con una sostanza che pareva sangue disseccato si leggevano le iniziali P.L.
Falcon si lascio andare contro lo schienale della sedia. Sapeva che cosa stava facendo Sergio. Sergio si stava impossessando del mito elaborato dai media, dicendogli che aveva usato la scheggia di specchio per distrarre Pepe nel momento in cui stava per uccidere il toro. Javier non lo credeva, non era possibile; ma la cosa lo interessava, perche aveva capito che finalmente aveva forzato la mano a Sergio. C'era disperazione in quello stratagemma arrogante e poco sottile.
Batte il dito sul cartoncino dove era scritta la lezione di vista. L'allusione al genio gli ricordo le parole che sua madre aveva usato quando Manuela le aveva chiesto che cosa contenesse l'urna di argilla. Tracce di ricordi premettero contro la membrana della sua coscienza, ma nulla filtro. Spinse via il cartoncino e apri il secondo pacchetto, che conteneva una serie di fotocopie. Dalla grafia capi che si trattava dei diari di suo padre.
7 luglio 1962, Tangeri
Ho quasi perso ogni traccia di Salgado da quando siamo tornati da N. Y., ma proprio mentre quel pensiero galleggia sulla calma piatta del mio orizzonte, arriva un ragazzo con un suo biglietto scritto sulla carta dell'hotel Rembrandt: mi prega di andare subito da lui nella camera 321, da solo. Il biglietto non mi sorprende gran che, non abbiamo il telefono qui. Soltanto mentre percorro il boulevard Pasteur comincio a essere inquieto. Che cosa puo essere successo di tanto importante da fargli pensare di potermi disturbare nelle mie ore di lavoro? Sono perplesso e turbato. L'ascensore dell'hotel Rembrandt, pur avendo solo pochi anni, e uno di quegli arnesi sobbalzanti che ti fanno temere che il cavo si spezzi da un momento all'altro. Arrivo alla porta della camera 321 in preda a cupi presagi. Tra la porta principale e quella della stanza c'e un breve corridoio, una di quelle strutture moderne che lasciano perplessi, ma che sembrano fatte apposta per questo genere di occasioni. Significa che Salgado puo tirarmi dentro e spiegarmi la gravita della situazione senza l'impatto immediato con l'orrore della cosa.
Versione breve: c'e un ragazzo morto nella stanza.
Salgado mi dice che e morto accidentalmente.
«Accidentalmente?» ripeto.
«E caduto e ha battuto la testa. Deve averla battuta in un punto brutto, ma comunque e certamente morto.»
«Come ha fatto a cadere?»
«E inciampato mentre andava in bagno… ma io l'ho rimesso sul letto.»
«Allora perche non chiamiamo la polizia e non spieghiamo come sono andate le cose?»
Silenzio da parte di Salgado.
«Vuoi che gli dia un'occhiata?» domando, ma non aspetto la risposta ed entro nella camera dove vedo un ragazzo nudo in un viluppo di lenzuola, un braccio penzoloni, la lingua che sporge dalla bocca e gli occhi fuori dalle orbite. Ci sono escoriazioni sulla gola.
«Non credo che abbia battuto la testa. Non e vero, Ramon?»
«E stata una disgrazia.»
«Non capisco come tu abbia fatto a strangolare qualcuno accidentalmente, Ramon.»
«Stavo cercando di fargli riprendere conoscenza.»
Ci guardiamo e Ramon all'improvviso si gira e comincia a battere la testa contro il muro, intonando qualcosa che a me sembra in lingua basca. Lo faccio sedere e gli chiedo di dirmi che cosa sia successo, ma lui si preme i pugni sulle tempie e continua a ripetere che e stata una disgrazia. Gli dico che chiamero il capo della polizia e che potra raccontare a lui quello che ha raccontato a me, con il ragazzo sul letto, sodomizzato e strangolato. Si alza e comincia a camminare avanti e indietro a grandi passi, gesticolando e declamando chissa che in quella lingua strana. Gli do uno schiaffo e lui si trasforma in una creatura patetica accovacciata sul pavimento, piangente, le spalle da uccello scosse dai singhiozzi. Un altro ceffone lo fa girare verso di me.
«Dimmi che cosa e successo», gli ordino. «Non sono il tuo giudice.»
«L'ho ammazzato», dice.
«Eri innamorato di lui?»
«No, no, no que no!» esclama con enfasi. Con troppa enfasi.
Lo fisso e leggo sulla sua faccia la corruzione, una depravazione cosi terribile che non riesce ad ammetterla nemmeno con se stesso. Ora so che Ramon Salgado ha ucciso unicamente a causa di cio che quel ragazzo stava facendo a lui. Salgado e vanesio, con le donne e un grande adulatore, M. e lui si adorano, ha relazioni che non durano mai, e ormai ricco, famoso nel suo piccolo mondo e stimato, ma… gli piace sodomizzare i fanciulli e questo incrina l'immagine aulica che ha di se stesso. Perlomeno cosi la vedo io. Ha ucciso il ragazzo perche lo costringeva a vedere di se una cosa per lui odiosa.
Pronuncia le fatali parole: «Non potevo affrontare uno scandalo».
Non lo disprezzo, nemmeno per questo. Chi sono io per poter disprezzare qualcuno? Mi siedo ai piedi del ragazzo e accendo una sigaretta a Salgado.
«Mi aiuterai?» mi domanda.
Gli racconto una storia che ho sentito da un amico di B.H. negli anni '40, su un ricco invertito che aveva rimorchiato un gruppetto di militari in un noto bar per omosessuali di Manhattan e li aveva portati a una festa in casa di sua madre sulla Quinta Strada. Erano tutti ubriachi e uno dei soldati aveva perso i sensi. Allora gli avevano sfilato i pantaloni, per scherzo avevano cominciato a radergli i peli del pube e accidentalmente, sottolineo