un italiano con cui trattare. Dai corsi abbiamo saputo che occorre il loro permesso. A. non scende a terra e io mi rendo conto di quanto l'incidente con gli italiani lo abbia scosso.

12 marzo 1944

R. e deciso a dimostrare ad A. quanto denaro si puo fare con un traffico ben organizzato con gli italiani. Abbiamo la barca piena di Lucky Strike, quasi non ci e rimasto un posto per dormire tanti sono gli scatoloni, le stecche, perfino i pacchetti sciolti. A. e preoccupato, ha messo tutti i suoi soldi in quest'unica partita. Scivoliamo verso il largo nel golfo di Napoli con il buio e restiamo in attesa nell'oscurita fredda di un mare liscio come l'olio. R. viene nella cabina dove me ne sto con il fucile mitragliatore sulle ginocchia. Mi dice di tenermi pronto e di non farmi vedere; al primo accenno di guai non devo mettermi a discutere, ma ammazzarli tutti. «Credevo che avessimo avuto il permesso», obietto. «Qualche volta prima bisogna far vedere chi siamo per ottenerlo. Non c'e mai niente di certo con questa gente.» Gli domando perche non l'abbia detto ad A. e lui dice: «Ognuno deve saper ragionare per conto suo. Se ci si affida agli altri si rischia».

Controllo che tutti e quattro i caricatori siano in ordine e il fucile mitragliatore pronto a fare fuoco. Sciabordio dell'acqua contro le murate. Dopo qualche minuto si sente il rumore di un motore che si avvicina. Spengo la sigaretta, salgo nella tuga e mi rannicchio al di sotto del vetro incrinato. Avverto un cambiamento in R., ma la barca ci e addosso e non ho tempo di pensare a questo. Mentre l'imbarcazione si affianca alla nostra, a bordo si accende una luce. I parabordi fatti con vecchi copertoni cigolano e stridono mentre le due barche si toccano. Odo voci italiane, musicali e per nulla minacciose. Sbircio dal vetro. A. e R. sono in piedi alla battagliola a circa tre metri da me. L'italiano capisce la nostra lingua. Due uomini scavalcano la nostra battagliola a poppa e si portano sul lato buio della tuga. So che qualcosa non va. Sento i due dietro la paratia, il fruscio della stoffa dei loro abiti. E questo il primo segno di guai? Si sente un grido e io non esito piu e sparo attraverso la parete di legno. Mi precipito fuori e salto sulla barca degli italiani. Sulla nostra coperta non vedo nessuno. Perlustro la poppa della barca italiana. All'improvviso il motore si avvia e io sparo contro la tuga uccidendo due uomini. Rimetto il motore in folle e la barca si allontana alla deriva dalla nostra. Resto in ascolto, poi controllo il ponte e scendo sotto coperta. La cabina e vuota. La porta della stiva si apre sul buio puzzolente di nafta. Trovo una pila elettrica nella cabina e, con le spalle appoggiate alla paratia, illumino la stiva. Niente. Nessuno sparo. Un ragazzo, massimo diciassette anni, e rannicchiato in un angolo della stiva. Addosso gli trovo soltanto un coltellino. Trema dalla paura. Lo trascino in coperta. Nelle onde di oscurita e ancora visibile lo scafo bianco del peschereccio di A., poi si accende una luce nella tuga e il motore si avvia. R. e al timone. Il ragazzo italiano, in ginocchio, sta pregando. Gli dico di stare zitto, ma ha ormai trovato il ritmo della preghiera. R. mi lancia una cima. «Tutti morti?» mi domanda. Io indico il ragazzo ai miei piedi. R. annuisce. «Meglio ammazzare anche lui», dice. Il ragazzo geme. R., che e bagnato fradicio, mi accorgo, mi consegna una pistola.

«Ho bisogno di un motivo migliore per ucciderlo», dico.

«Ha visto tutto», risponde R.

«Forse e ora che ti sporchi le mani anche tu.»

«Me le sono gia sporcate», ribatte.

Ho la pistola in mano. Trascino il ragazzo fino alla battagliola, la testa gli ciondola fuori bordo, il pianto gli si strozza in gola. Gli sparo dietro l'orecchio. Restituisco la rivoltella a R., pensando: di questo sono capace.

La stessa mano che ha premuto il grilletto guida ora le parole con la penna e io non sono piu vicino di prima a capire come possa essere uno strumento di creazione e di distruzione al tempo stesso.

Facciamo rotta per la Corsica e durante la traversata buttiamo a mare i cadaveri. Porto la barca italiana ad affiancarsi all'altra, dobbiamo essere in due per sollevare ciascun corpo. Quando arriviamo a quello di A. io dico che dovremmo onorarlo con una preghiera. R. fa spallucce. Mi regolo come fosse stato un compagno della Legione e chiamo il suo nome, rispondendo: «Presente!» Mentre lo caliamo in mare, vedo che e stato colpito due volte, alla spalla e alla nuca.

Scarichiamo le sigarette e mettiamo le barche in cantiere ad Ajaccio, per sistemarle e ripitturarle usando i soldi guadagnati con le sigarette. R. scompare per un giorno intero e torna con i documenti per entrambe le barche a nome suo e mio. Salpiamo per Cartagena e registriamo le imbarcazioni come battenti bandiera spagnola, cambiando i nomi. Non abbiamo avuto il tempo di parlare di quanto e successo e, con il passare dei giorni, l'incidente si allontana sempre di piu e ogni ricordo di A. svanisce. Constato che R. ha un vero talento per chiudere le porte dietro di se. Il legame che ha con me deriva dal fatto che mi ha affidato l'unico ricordo importante per lui e cioe la morte dei suoi genitori. Credo sia stato allora che ha cominciato a ritenere la memoria non un fattore di chiarezza, ma un'interferenza inopportuna: offrendo solo nostalgia in cambio del vuoto che si ha dentro, non ha nessun valore.

14 marzo 1944

Conversazione con R.

Io: Che cosa e successo con gli italiani?

R.: Lo hai visto, c'eri anche tu.

Io: Non ho visto come e cominciato.

R.: Allora perche hai aperto il fuoco?

Io: Quei due non avrebbero dovuto salire a bordo della nostra barca. Ho fatto fuoco al primo segno di guai… come mi era stato ordinato.

R.: Tutto qui?

Io: Ho udito un grido… mi e sembrato un segnale.

R.: L'italiano era armato. Ho gridato. Lui ha sparato ad A. Io mi sono buttato in mare. Ho sentito il mitragliatore fare fuoco e da come si sono messi a correre lo hanno sentito anche gli italiani.

Io: A. e stato colpito due volte.

R.: Che vuoi dire?

Io: Gli hanno sparato alla spalla e alla nuca.

R.: Io ero in acqua. Forse l'italiano ha tirato due volte.

Io: Dove hai preso quella pistola?

R.: Perche questo interrogatorio?

Io: Voglio sapere che cosa e successo. Hai detto che ti sei sporcato le mani. Hai detto che bisogna far vedere chi siamo per ottenere il permesso da quella gente.

Lunga pausa durante la quale decido che non sapro mai che cosa passa per la testa di R.

R.: La pistola apparteneva a uno degli italiani che hai ammazzato.

Perlomeno ha risposto, anche se con una menzogna.

23 marzo 1944

Un'altra informazione su quella che ormai io chiamo «la notte brava». A Tangeri vado dall'americano e gli chiedo un altro caricatore per il fucile mitragliatore e altri proiettili per la pistola che ha venduto a R., e senza esitazione lui mi da una scatola di proiettili calibro .45. Mi dice anche di sfuggita che la cosa migliore che gli alleati abbiano fatto per il commercio e affidare Napoli a Vito Genovese. Non conosco questo nome e l'americano mi rivela che e il capo della camorra, cioe, come apprendo in seguito, la versione napoletana della mafia siciliana.

Da quando ci siamo imbarcati in questo affare R. e cambiato, non e piu simpatico come prima, usa il suo fascino a comando, quando gli serve. Il fatto e che R. e stato sguinzagliato nel mondo con un solo ricordo terribile, la morte dei genitori. Quando ho detto, senza riflettere, che erano stati ammazzati proprio a causa del suo acume negli affari e come se lo avessi infilzato con una baionetta incandescente. Il senso di colpa che ho creato in lui lo ha reso spietato e selvaggio. Ha fatto di me il suo socio, ma non so perche, dato che non sembra aver bisogno di nessuno.

30 marzo 1944, Tangeri

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