Esco di casa e la vedo li, in strada, che passeggia avanti e indietro. Sono costretto ad aggrapparmi allo stipite per non cadere, le gambe non mi reggono piu. La chiamo, lei non dice nulla e mi precede in casa. Il suo odore mi riempie i polmoni e so di essere stato salvato. Il ragazzo ci prepara il te alla menta. P. non si mette a sedere nemmeno quando il te arriva, accarezza la testa del ragazzo, che scivola fuori dalla stanza come se fosse stato sfiorato da un angelo.
Non so da dove cominciare. E come se mi trovassi davanti alle mie tele e la mia mano ne toccasse un angolo, un lato, il centro e non lasciasse nessun segno. Cosi avevo fatto per ore e quando finalmente avevo deciso in che punto avrei affrontato la tela bianca, bianchissima, non ero riuscito a lasciare nessun segno, sul pennello nessun colore. Cosi mi sento ora. Mi costringo a parlare.
Io: Sono andato a Granada per cercarti… non avevo piu avuto tue notizie.
Silenzio.
Io: Mi hanno detto che tua zia era morta, che tua madre era malata e che vi eravate trasferiti tutti a Madrid.
P.: Era vero.
Io: Non avevano il tuo indirizzo, non c'era modo di mettersi in contatto con te.
P.: Non era vero.
Silenzio.
Io: Come, non era vero?
P.: Sapevano esattamente dove vivevamo. Mio padre aveva lasciato l'indirizzo, ma aveva anche detto di non darlo a nessuno che corrispondesse alla tua descrizione, che fosse arrivato da Tangeri e avesse chiesto notizie di sua figlia.
Io: Non capisco.
P.: Non voleva che ti vedessi mai piu.
Io: Era per via di… quei disegni? L'aveva saputo? Aveva saputo che eri stata davanti a me…?
P.: No. Quella era una cosa tra te e me.
Io: E allora che cosa e successo? Non riesco a capire come io possa averlo fatto arrabbiare, abbiamo parlato soltanto della mia schiena…
P.: Mio padre conosceva l'arabo.
Io: Certo, ha vissuto a Melilla. Dov'e tuo padre? Devo parlargli.
P.: Mio padre e morto.
Io: Mi dispiace.
P.: E morto sei mesi dopo mia madre.
Io: Hai sofferto.
P.: Sono stati diciotto mesi di sofferenza. Mi hanno invecchiato e indurito.
Io: Hai l'aspetto di sempre, non si vede dal tuo viso.
P.: Stavo dicendo che mio padre parlava l'arabo e siccome conosceva alcuni dialetti del Rif gli era stato chiesto di lavorare una mattina alla settimana per i poveri delle chabolas, alla periferia della citta. La donna americana, La Rica, la signora Hutton, aveva donato del denaro per le medicine e i viveri. Mio padre si e offerto volontario. Ha riscontrato i soliti problemi della gente malnutrita, ma si e imbattuto anche in una quantita sorprendente di mutilazioni. Orecchie, dita, pollici tagliati, nasi spaccati. Nessuno ha voluto dirgli come se le fossero procurate fino a quando non si e presentata da lui una donna che mio padre aveva gia visto la settimana prima con il figlio, che aveva perduto un orecchio. Era piena di vergogna all'idea di farsi visitare da un uomo, ma i dolori erano cosi forti che aveva dovuto cedere. Mio padre le ha chiesto notizie del figlio e perche mai nessuno volesse dirgli niente su quelle mutilazioni. «Non parlano perche e la vostra gente a fare questo.» Mio padre e rimasto allibito. La donna gli ha detto che li i giovani devono rubare per non morire di fame, gli ha parlato delle mutilazioni che subiscono per dar da mangiare alle famiglie e di come alcuni siano morti in seguito alle ferite. Mio padre era agghiacciato e le ha chiesto chi facesse questo. «Gli uomini che sorvegliano i magazzini.»
Rimango muto. Dentro sono congelato, il petto una caverna di ghiaccio nella quale soffia il vento piu gelido. La mia musa e tornata per dirmi che non mi parlera piu.
P.: Un ragazzo con una ferita infetta ha dovuto essere rioperato. Non succedeva spesso, ma in questo caso mio padre era rimasto commosso dal suo coraggio, dal modo in cui sopportava il dolore senza lamentarsi. Il ragazzo e guarito e mio padre lo ha preso a lavorare da noi. Un giorno all'ora di pranzo e scomparso. Lo abbiamo cercato in tutta la casa. Era rannicchiato in fondo alla lavanderia, non riusciva a dire altro che: «Se ne e andato? Se ne e andato?» Il suo era terrore allo stato puro. Gli abbiamo chiesto di chi avesse paura, ma lui rispondeva soltanto: «El Marroqui». E successa la stessa cosa la mattina dopo. Mio padre ha controllato sull'agenda degli appuntamenti e ha visto che quel giorno i suoi unici pazienti erano il signor Cardoso, che aveva ottantadue anni, e… tu.
Il giorno seguente mio padre ha portato il ragazzo al Petit Soco. Eri seduto al tuo solito tavolino al Cafe Central e il ragazzo ha detto a mio padre che El Marroqui eri tu.
Non riesco a muovermi. Gli occhi verdi sono su di me. So che questo e il momento cruciale, lo so perche tutto precipita intorno a noi come se le nostre due vite si stessero comprimendo in quest'unico istante. Decido di ignorarlo. Mentiro. Proprio come ho mentito con tutti, con C.B., con la regina della casbah, con la contessa de Bibi e con il duca de Bibo. Mentiro. Sono Francisco Falcon. No. Lui e Francisco Falcon. Io non esisto piu.
P.: Sei responsabile di quanto e successo a quella gente?
Gli occhi verdi chiedono, supplicano e io so di essere perduto. Mi guardo le mani, che contengono l'acqua della mia vita che ribolle e mi schernisce mentre mi cola tra le dita.
Io: Si, sono stato io. Ne sono responsabile.
Non se ne va. Mi guarda e io mi rendo conto di aver preso la decisione giusta.
P.: I miei genitori si sono informati discretamente sulla societa per cui lavoravi e hanno scoperto che eri un ex legionario e un contrabandista e che era la tua capacita di esercitare la violenza a incutere timore in tutti i vostri nemici e concorrenti. Hanno deciso di mandarmi via. E stata una coincidenza che mia zia si sia ammalata.
Io: Ma perche costringerti a partire? Non bastava proibirti di vedermi?
P.: Perche sapevano che ero innamorata di te.
Finalmente si siede e chiede una sigaretta. Quasi non riesce a prenderla. Gliela accendo e gliela metto tra le dita. Il suo sguardo e fisso sul pavimento. Le dico tutto. Le racconto tutto (o quasi tutto) dell'incidente che mi ha spinto a scappare di casa e a entrare nella Legione, le racconto cio che ho fatto nella Guerra civile, in Russia, a Krasni Bor. Le spiego perche ho lasciato Siviglia, le parlo di Tangeri… tutto. Le rivelo la mia desolazione, le dico come lei mi sia entrata dentro, come sia la mia struttura portante. Mi ascolta. Il cielo si fa scuro, si leva il vento. Il ragazzo porta altro te alla menta e una candela. La fiammella tremola nella corrente. Di una sola cosa non le parlo. Le rivelo ogni orrendo particolare, ma non le dico dei ragazzi, non sono cose per un orecchio di donna. Cio che ho confessato e gia di un'enormita cosi sconvolgente che aggiungervi anche la depravazione mi metterebbe al di la di ogni possibilita di redenzione. Finisco parlandole del lavoro, del fatto che non dipingo piu, che non riesco piu a progredire dopo quei disegni, le dico che ho bisogno di lei perche solo lei puo riaprirmi gli occhi. Ricorda le ultime parole che mi ha rivolto il giorno in cui abbiamo fatto quei disegni? le chiedo. Scuote la testa. Gliele dico: «Ora sai».
Mentre scrivo queste righe lei e distesa sul letto, una forma vaga sotto la zanzariera alla luce della fiamma lunga di una candela. Dorme. Prendo il foglio da disegno e il carboncino.
3 giugno 1948, Tangeri
P. mi dice di essere incinta. Per quel giorno abbandono i miei strumenti e ce ne stiamo insieme a letto, la gola troppo stretta per parlare della pienezza del nostro futuro insieme e dei bambini che avremo.