avesse fatto fermare a una certa distanza dal punto dell’esplosione.

«Dopo l’attentato il comandante Jurovskij ordino d’intensificare i turni e la vigilanza. Venne vietato il transito dei pedoni sul marciapiede di via Voznesenskij su cui dava la casa. Alla famiglia imperiale fu vietato uscire in giardino.»

Una settimana dopo l’incontro con Kaplan, Iosif Drostin fu destinato alle fornaci, un lavoro che tutti temevano e a cui di solito si veniva comandati per punizione.

Crogioli e forni risalivano ancora ai tempi zaristi, e il lavoro per alimentarli era duro e faticoso. Drostin non pote fare altro che impugnare la vanga a testa bassa e buttare carbone nella bocca del forno, maledicendo tra se quella sorta di cella di rigore.

New York. 1980

Timothy Hassler fu svegliato dal telefono. Assonnato, prese la cornetta dando un’occhiata alla sveglia sul comodino. Erano quasi le due. Chi lo aveva svegliato nel cuore della notte doveva avere un motivo molto, molto valido.

«Agente Leigh, signore», si senti dire dall’altro capo della linea. «Mi scusi per l’ora, ma il suo informatore aveva ragione. L’incrocio che ha descritto corrisponde precisamente al luogo dove sono adesso.»

«Ha verificato le generalita degli abitanti del palazzo d’angolo?»

«Si, signore. Al terzo piano abita da diversi anni una famiglia su cui non possiamo nutrire sospetti, ma al secondo… be’…» rispose l’agente, «vivono Kalid Moktar e Mohammed Bruni, entrambi libanesi: hanno affittato la casa un mese fa. Nel quartiere mi hanno riferito che fanno vita ritirata e sono gentili. Lavorano in un autolavaggio della zona.»

«Ci siamo», esclamo Hassler. «Li tenga d’occhio. Intanto io allerto le squadre speciali.»

Le sensazioni della bella Maggie si erano rivelate sbalorditivamente precise, almeno fino a quel momento.

Il sole della Florida era caldo. Pat se lo stava godendo su un lettino da spiaggia, quando vide arrivare il valletto dell’albergo.

«E desiderato al telefono, signor Silver», gli disse il giovane di colore, abbozzando un inchino.

Pat si chiese chi potesse averlo scovato in quell’albergo della Florida, dove si stava godendo una delle sue piccole «vacanze» dopo l’ultimo colpo.

«Pat, sono Derrick Grant», disse la voce del suo ex compagno di campus.

«Derrick, che cosa succede? E, soprattutto, come hai fatto a trovarmi qui?»

«Sapevo che lasci sempre il tuo recapito alla mamma per ogni evenienza», rispose Derrick. «Quanto poi a che cosa succede, la nostra Venere Nera ne ha fatta un’altra delle sue.»

«Maggie?» Pat non aveva piu avuto contatti con lei dalla sera della festa di laurea e serbava ancora il ricordo delle sue labbra appena sfiorate.

«Certo. Sembra incredibile, ma ha descritto nei minimi particolari a un amico di mio padre, che si occupa di terrorismo, un crocevia della periferia di Washington. E non era mai stata da quelle parti.»

«Incredibile. Ma io che cosa c’entro?»

«Niente. Volevo soltanto informarti. Quando torni a New York, dobbiamo vederci.»

«Si. Si… certo», replico Pat con scarsa convinzione, «pero tieni presente che non ho nessuna intenzione di correre dietro alle visioni di Maggie.»

«D’accordo. Volevo soltanto informarti. Scusa.»

Posata la cornetta, Pat Silver torno verso la spiaggia. Gli spiaceva essere stato scortese con l’amico, ma aveva detto la verita: i seimila dollari della Saving Ltd stavano finendo, e aveva ben altro a cui pensare.

L’agente dei corpi speciali era travestito da lattaio. Le scale pullulavano di uomini con casco e giubbotto antiproiettile. Sul tetto del palazzo di fronte erano appostati quattro tiratori scelti.

«Chi e?» chiese una voce dal marcato accento straniero, non appena il falso lattaio ebbe bussato alla porta.

«Il lattaio. Le ho portato il conto, signore.»

«Il conto?» chiese di nuovo il libanese da dietro la porta. «Ma siamo soltanto al sette del mese.»

«Il capo mi ha chiesto di riscuotere settimanalmente, signore.»

Kalid Moktar prese la Smith Wesson 38 e la nascose dietro la schiena. Una rapida occhiata al suo compagno basto perche quello si appostasse dietro il divano.

Moktar apri la porta lentamente, inserendo il catenaccio.

Ma gli uomini delle squadre speciali lo scardinarono, facendo irruzione nell’appartamento. La porta divelta travolse il primo terrorista, mentre il secondo apriva il fuoco.

Si scateno l’inferno. Gli agenti risposero con le mitragliette. Il fuoco duro pochi istanti, intenso e letale. Alla fine i due libanesi giacevano riversi nel loro sangue.

In un angolo della stanza c’era un ordigno confezionato con dodici chilogrammi di esplosivo ad alto potenziale: una carica sufficiente per far saltare in aria buona parte di Capitol Hill. L’obiettivo dell’attentato, come scoprirono in seguito gli agenti dell’antiterrorismo, era proprio la sede del Congresso degli Stati Uniti.

Ekaterinburg. 1980

«Non scordero mai la notte tra il 16 e il 17 luglio 1918», gli aveva dettato ancora nonno Igor. «Per mia fortuna non fui scelto per il plotone d’esecuzione, ma mi sentii ugualmente responsabile della morte di tante persone, tra cui un ragazzo malato di emofilia.

«Fu un massacro. Alcune delle ragazze furono finite a colpi di baionetta. Fu ucciso persino il cane Jemmi. Un camerata mi disse che il comandante Jurovskij aveva finito Alessio a colpi di rivoltella. Tutti i cadaveri, ad eccezione di quello dello zar, erano in uno stato pietoso, irriconoscibili a causa dei proiettili e del modo in cui le guardie avevano infierito su di loro. Furono trasportati nella zona mineraria dei Quattro Fratelli.

«Quando i cadaveri furono allineati nel pozzo numero sette, un mio camerata, Nareev, scopri che gli abiti dei familiari dello zar erano foderati di una grossa quantita di pietre preziose, tante da consentire a tutti un esilio dorato. Per questa sua scoperta cerco di uccidermi. Voleva tenere tutto per se.

«Vincendo la mia riluttanza, spogliai quei poveri corpi e recuperai un tesoro. Pensai soltanto che un giorno avrei avuto una famiglia, figli, nipoti.

«Jurovskij arrivo con un camion militare alle prime luci dell’alba, per farmi dare il cambio dai suoi fedeli lettoni. Un secondo camion trasportava numerosi fusti di benzina e acido.

«Gli raccontai brevemente cio che era successo quella notte e gli consegnai la mia bisaccia colma di pietre preziose.

«‘Compagni’, annuncio, ‘Drostin e un eroe della Rivoluzione. Ha consegnato al Soviet un tesoro. Proporro che tu sia decorato, Igor.’

«Cosi divenni un eroe. Un giorno le cose cambieranno, nipote Iosif, e su queste mie righe costruirai il tuo futuro. Troverai il tuo avvenire all’incontro delle diagonali.»

Il futuro… Iosif scosse la testa. Batte le mani sulla tuta grigia e fu avvolto da una nuvola di carbone. Era stanco: quel primo giorno alle fornaci lo aveva prostrato nel fisico e nella mente.

«Mi auguro che il caldo ti faccia venire voglia di lavorare, Drostin», grido Kaplan quando lui gli passo davanti, scoppiando in una risata rauca.

Iosif non replico, uscendo dalla fabbrica.

«Non doveva farlo», disse una voce alle sue spalle, «non doveva metterti alle fornaci.»

Iosif si giro, incontrando lo sguardo torvo di Chalva Tanzic.

Quella sera Kaplan usci dalla fabbrica fischiettando. Presa la bicicletta dalla rastrelliera, si avvio nelle strade semideserte di Ekaterinburg. Passo davanti alla chiesa, tenendosi sulla sinistra per imboccare la strada di

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