Dodd riprese a parlare e Thorne fu felice di poter distogliere lo sguardo.

«C’e stato un tizio, circa cinque mesi fa. E venuto una volta sola. Voleva lo studio per un paio d’ore. Di solito, anche quando chiedono che io me ne vada, mi trattengo qualche minuto per sistemare le luci, ma lui disse che avrebbe fatto tutto da solo, che sapeva usare le apparecchiature.»

«E la ragazza?»

«Non ho mai visto nessuna ragazza. Quell’uomo era solo.»

«Dammi un nome.»

Dodd sbuffo, irritato. «Ma certo, adesso controllo il registro. Anzi, magari chiedo alla mia segretaria di farlo. Ma che cazzo…»

Thorne fece un passo verso la porta. «Mettiti la giacca, Charlie. Ho bisogno di un identikit di quell’uomo e sara bene che la tua memoria per le facce sia buona quanto quella che hai per culi e tette.»

«Mi dispiace, amico, ma non ci sara nessun identikit. Il motivo per cui mi sono ricordato di lui e proprio che all’inizio l’avevo preso per un pony express, o qualcosa del genere. Era vestito di pelle dalla testa ai piedi e portava un casco dalla visiera scura…»

Thorne capi subito che Dodd diceva la verita. Sentiva come una forte pressione alla base della testa. Il suo colpo di fortuna che andava in malora.

«Devi averlo visto piu di una volta, di sicuro.»

«Due volte. Quando e venuto a noleggiare lo studio e il giorno in cui ha scattato le foto.» Dodd cominciava ad assumere un’aria leggermente compiaciuta. «Ma tutte e due le volte aveva il casco in testa. Ricordo perfettamente come se ne stava li sulle scale, tutto vestito in pelle come un fottuto killer, in attesa che io me ne andassi…»

Dall’altra parte della stanza, si udi il ronzio di un vibratore. L’uomo con la telecamera aveva ripreso a girare.

Thorne si volto e spalanco la porta. Avrebbe raccolto in seguito la deposizione firmata di Dodd, per quello che valeva. Era andato a sbattere contro un altro muro. Un muro che gli sembrava solido e dipinto di nero proprio come quello del postaccio da cui era appena uscito.

Scese le scale a due gradini per volta, senza riuscire a scacciare l’immagine che gli si era fissata nella mente: il viso di quella ragazza sul letto quando aveva alzato lo sguardo su di lui, la bocca e il mento umidi e gli occhi neri e morti come quelli del pesce nella vetrina della pescheria.

10 agosto 1976

Era la prima volta da molto tempo che lei aveva una reazione di qualche tipo.

Lui non se lo aspettava e, in un certo senso, la cosa gli fece piacere.

Vedere la sua bocca aprirsi leggermente, i suoi occhi spalancarsi nell’osservare la mano di lui che si stringeva intorno alla base della lampada.

«Per favore» disse. «Per favore…»

Nei pochi istanti in cui tenne la lampada sollevata sopra la testa, lui penso ai diversi significati che quell’espressione poteva avere, a seconda di come veniva pronunciata.

Per favore, non farlo.

Per favore, fallo.

Per favore, non smettere.

Per favore, fammi godere.

Per favore, per favore…

Mentre le abbatteva addosso la lampada con tutta la forza che aveva in corpo, penso che quelle due parole fossero le piu appropriate in vista della morte.

Se non altro, per come le aveva pronunciate ora, erano sincere.

A ogni colpo i suoi pensieri si facevano piu chiari, meno annebbiati.

Finche, quando ormai lei era irriconoscibile, riusci a ricordare dove aveva visto l’ultima volta il cavo da traino, nel garage.

CAPITOLO 9

Quel tremendo iato tra l’arrivo e il momento in cui cominciava ad accadere qualcosa…

Presto, fu loro spiegato, dai vassoi del buffet sarebbe stata tolta la pellicola trasparente e presto il deejay sarebbe partito con la musica. Fino a quel momento, al bar c’erano centocinquanta sterline di aperitivi gia pagati, percio tutti potevano farsene almeno un paio e brindare ancora una volta agli sposi, mentre aspettavano che avesse inizio il divertimento…

Purtroppo, al bar di quel club del rugby la gente era poca e il rumore non formava un confortante paravento dietro cui Thorne potesse nascondersi. Prese una pinta di birra amara per suo padre, una mezza di Guinness per se e si rifugio nell’angolo piu appartato che riusci a trovare. Si sedette e si sforzo di provare entusiasmo per le uova alla scozzese, il pasticcio di maiale e l’insalata di pasta. Sollevava il bicchiere alla salute di tutti coloro di cui incrociava lo sguardo e faceva del suo meglio per non sembrare annoiato, o, peggio ancora, triste.

Suo padre, invece, sembrava perfettamente a proprio agio. Seduto su una sedia accanto al bancone del bar, raccontava barzellette a una coppia di adolescenti, che sorridevano educati sorseggiando i loro drink. E informava ogni donna di passaggio che lui aveva la memoria di un pesce rosso, a causa di quella malattia dal nome strano… Come si chiamava? Lo aveva dimenticato. E chiedeva con una strizzata d’occhio di perdonarlo se era andato a letto con qualcuna di loro e ora non se ne ricordava.

Thorne era felice di vederlo cosi in forma, soprattutto dopo la telefonata del giorno prima, che aveva messo fine alla sua serata con Eve Bloom…

Il tavolo di pino naturale in cucina era apparecchiato per quattro, ma Thorne non aveva ancora incontrato gli altri due commensali. Eve, intenta ai fornelli, si giro verso di lui.

«Nel caso te lo stessi chiedendo, sono chiusi in camera.» Abbasso la voce fino a un sussurro. «Credo che abbiano litigato…»

Thorne stava versando il vino in due bicchieri. «Ah» disse, anche lui in un bisbiglio. «Una lite seria? Significa che ceneremo da soli?»

Eve si avvicino al tavolo e prese il suo bicchiere di vino. «Non credo proprio. Ben non e il tipo da saltare la cena per una discussione. Alla salute.» Bevve un sorso e poso il bicchiere accanto ai fornelli, vicino a una serie di padelle di rame. Fece un cenno con il capo in direzione delle voci irritate che provenivano da qualche punto dell’appartamento. «E comunque a loro piace litigare. Sono liti un po’ violente, ma di solito durano poco.»

«Violente?» ripete Thorne, in un tono che cerco di far sembrare casuale.

«Non nel senso che credi tu. Parecchie urla, oggetti buttati a terra… tutta roba infrangibile, pero.»

Thorne la fisso. Eve gli voltava di nuovo la schiena, occupata con la cena. Aveva le spalle brune, che contrastavano piacevolmente con il color crema del suo top.

«Io invece sono di quelle che sopportano a lungo,» disse Eve «e poi esplodono tutto in un colpo.»

«Faro attenzione a non provocarti.»

«Non preoccuparti: se accadra, te ne accorgerai di sicuro…»

Thorne si guardo intorno nella cucina. Un paio di locandine di film in bianco e nero incorniciate. Teiera, tostapane e frullatore in acciaio cromato. Un grande frigorifero dall’aria costosa.

Il negozio rendeva bene, evidentemente, anche se Thorne non sapeva quali oggetti fossero di Eve e quali della sua coinquilina. Quasi certamente la collezione di erbe in vasi di terracotta era un contributo di Eve, cosi come l’elenco di nomi latini (probabilmente di fiori da ordinare) scarabocchiati sull’enorme lavagna che occupava un’intera parete. Thorne noto con soddisfazione il proprio nome e numero di cellulare nell’angolo in basso a sinistra.

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